• giovedì , 26 Dicembre 2024

Euro e dollaro gli exsignori delle monete

Dal 1971 al 1998, il sistema monetario internazionale, che aveva, per gli accordi di Bretton Woods, due strumenti di riserva funzionanti, oro e dollaro (c’era anche la sterlina, ma in via di estinzione, perpetuamente in crisi), fu ridotto, dalla fine della convertibilità aurea del dollaro, ad averne uno solo, lo stesso dollaro. Iniziava così il dollar standard, con la virtuale demonetizzazione dell’oro. Si disse allora che il nuovo sistema era in realtà a cambi flessibili e non avrebbe avuto bisogno di riserve, perché i cambi si sarebbero aggiustati seguendo le bilance dei pagamenti degli stati. l vecchio e illustre economista Sir Roy Harrod previde invece che il nuovo sistema avrebbe avuto bisogno di assai più riserve di quello precedente, perché bisognava capire che i vari paesi non avevano alcuna intenzione di farsi dettare il tasso di cambio dai mercati dove imperavano i movimenti di capitali a breve termine. Sir Roy ebbe ragione. Oggi di riserve ce ne sono 10.000(diecimila) volte la quantità che c’era prima del 1971. Fino al 1998 il dollaro non ha avuto concorrenti come moneta di riserva. I paesi più importanti per scambi internazionali, Germania e Giappone, erano entrambi fortemente dipendenti dalle esportazioni, e non vollero mai accettare che il loro cambio col dollaro si rivalutasse, rendendo le loro esportazioni meno competitive. Non crearono riserve, perché mantennero positive le loro bilance dei pagamenti, esportando dunque capitali e assorbendo dollari, né più né meno come fanno ora la Cina, la Russia , i paesi del petrolio, il Brasile.
Ma anche se avessero avuto bilance dei pagamenti in deficit, ciò non sarebbe bastato alle monete di questi paesi, allora come ora, per diventare monete di riserva. Occorre anche che il paese che emette una moneta di riserva sia un rilevante centro finanziario internazionale, e che la sua moneta sia usata come preferibile veicolo di scambio tra altre monete sul mercato dei cambi. Occorre che tale moneta sia pure usata per denominare transazioni sia commerciali che finanziarie. Da quando è nato l’euro, è cessata la responsabilità di paesi individuali per la moneta unica europea. Essa è passata a quella esclusiva della Bce. L’euro rappresentando una massa economica totale pari a quella degli Stati Uniti, è stato dall’inizio il candidato naturale a costituire la seconda moneta di riserva del sistema monetario internazionale. Esso è anche la moneta di un’area che non è in surplus di pagamenti col resto del mondo e nella quale ci sono sia paesi forti che paesi più deboli. I mercati finanziari dei paesi dell’euro si stanno velocemente integrando tra loro e sono comparabili, grosso modo, a quello degli Stati Uniti.
C’è tuttavia una novità importante. I due mercati finanziari atlantici, quello europeo e quello americano, si stanno anch’essi velocemente integrando tra loro, cosa che non accadde nel caso di Usa e Giappone e non accade tra Usa e Cina. La Fed e la Bce non intervengono a modificare il corso di mercato delle loro rispettive monete, e i flussi finanziari tra zona euro e Stati Uniti sono del tutto liberi. Inoltre esiste, come ha documentato uno studio della Bis, un importante flusso di transazioni finanziarie che collega i mercati americani e quelli dei principali centri offshore, che quindi, tramite New York, servono anche il mercato finanziario della zona euro. Tutti questi elementi servono a inquadrare la peculiare situazione che il sistema monetario internazionale sta vivendo attualmente. Sono allo stesso tempo deboli tutt’e due le valute di riserva, euro e dollaro. Non vale la regola semplice, secondo la quale ad un euro forte corrisponde un dollaro debole. Le monete forti di oggi sono esplicitamente il franco svizzero, lo yen e le monete dei paesi esportatori di materie prime, come Australia e Nuova Zelanda. Lo sono, invece, solo potenzialmente, perché le autorità monetarie che le controllano non accettano la rivalutazione su dollaro ed euro e intervengono pesantemente ma con solo parziale successo sui mercati dei cambi, il Renmimbi cinese e il Real brasiliano, la lira turca e altre monete di paesi esportatori di materie prime, che accumulano riserve.
Queste riserve sono perlopiù in dollari, ma la loro componente in euro ha cominciato a diventare cospicua, superando il 40% del totale. La Cina, in particolare, ha cominciato ad accumulare titoli di stato dei paesi euro, anche di quelli del Sud Europa, per far accettare l’enorme surplus commerciale che ha nei confronti dei paesi euro, e anche per motivi precauzionali e di politica estera nei confronti degli Stati Uniti. La Cina, forse nel futuro non immediato, deciderà di aprire il proprio mercato finanziario interno liberandolo dai controlli di capitale e dalle altre estese restrizioni che permettono al governo di Pechino di mantenere la libertà di gestione della propria politica monetaria. Per ora, tuttavia, non sembra ancora aver deciso per una decisa liberalizzazione finanziaria. E, con gli attuali estesi problemi debitòri che affliggono le comunità locali cinesi, non è probabile che il giorno della liberalizzazione finanziaria sia prossimo. La moneta cinese resterà dunque ancora per parecchio lontana dall’assumere lo status di moneta di riserva. Si nota che una parte della dirigenza cinese preferirebbe andare più risolutamente verso la liberalizzazione e l’uso del Renmimbi come moneta di riserva, ma dopo un apparente prevalere di tale corrente l’anno scorso, ora sembra ci si diriga verso una assai maggior prudenza.
In realtà, se non si devono fare i conti con le necessità, anche occupazionali, di una piazza finanziaria internazionale già esistente e non si vedono i vantaggi derivanti dal far tenere la propria moneta a investitori stranieri, mancando un deficit strutturale della bilancia commerciale e invece si dipende ancora fortemente da una poderosa industria di esportazioni come volano dell’economia, i vantaggi netti derivanti dallo status di moneta di riserva non sono molto elevati. Ancor oggi, ad esempio, un grande paese come la Germania preferisce l’integrazione finanziaria con gli Stati Uniti, come testimonia la fusione tra la borsa di Francoforte e quella di New York, alla diretta costruzione di una piazza finanziaria internazionale in Germania. Si corrono rischi, come è accaduto alle banche tedesche con i mutui subprime americani, ma si mantiene la struttura di successo della propria economia, basata sulle esportazioni di prodotti industriali.
A queste considerazioni se ne deve aggiungere una importantissima: per la prima volta in molti decenni, sulle due sponde dell’Atlantico si segue, ormai da tre anni, la stessa politica monetaria, di espansione a oltranza per impedire prima gli effetti peggiori della crisi e poi fomentare una ripresa dell’economia reale. Il fiume di denaro creato dalla Fed e dalla Bce è riuscito finora a tenere deboli entrambe le monete di riserva, inchiodando i tassi di interesse su livelli prima impensati in tempo di pace. Sia la Fed che la Bce hanno tenuto finora in assai limitata considerazione i rincari nei prezzi delle materie prime che questa politica monetaria di medesimo segno e portata ha indotto. I paesi sviluppati, infatti, usano molto meno materie prime, proporzionalmente, di quelli emergenti. Solo per la benzina questo non è ancora vero ed è questo un cruccio che affligge i governatori di entrambe le banche centrali delle due monete di riserva.
La Bce aveva, a dire il vero, deciso di trovarsi di fronte a una solida ripresa dell’economia europea e fatto antivedere il passaggio in tempi brevi ad una minore espansione monetaria. Ma la crisi del debito sovrano dei paesi periferici della zona euro li ha costretti ad un rinvio, che speriamo breve solo perché sarebbe il segno che tale crisi è finita. Date le incertezze della dirigenza politica europea, che passano da una non decisione all’altra in merito ai debiti sovrani sopraddetti, temiamo però che per tale segno dovremo invece aspettare ancora a lungo. A meno che Mario Draghi non voglia seguire i numerosi esempi di governatori che si insediano e che vogliono mostrare la propria risolutezza aumentando i tassi. Ma lo conosciamo come persona abbastanza prudente e intellettualmente sicura da non aver bisogno di questi gesti teatrali.

Fonte: Affari e Finanza del 18 luglio 2011

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