• giovedì , 21 Novembre 2024

ERRORI ED INIQUITÀ DELLA CURA MONTI

Col volgere del tempo le illusioni sulla cura Monti si dissolvono come neve al sole, lasciando negli italiani più avveduti sempre meno speranze di una rapida uscita del Paese dal declino economico e sociale. Prima le esitazioni e gli indietrieggiamenti nel decreto di dicembre, poi le troppe circollocuzioni dai toni smorzati e povere di contenuti nella conferenza stampa di fine anno, insieme fanno mancare agli italiani la percezione di tutta la gravità della crisi in cui il Paese versa, e quindi la necessità per tutti di stringere la cinghia e porre fine a comportamenti che hanno condotto il Paese alla bancarotta. Ancora oggi molti italiani pensano che con l’austerità varata l’anno scorso il peggio sia passato e quindi si possa ricominciare come prima, con nuove spese in disavanzo (come programmato per il 2012) e i privilegi di tutte le corporazioni, inclusi i sindacati. Insufficiente è invece l’attenzione che viene prestata al fatto che con le tendenze in atto il debito pubblico continuerà a crescere nel prossimo biennio, mentre i mercati non sono più disposti a finanziarlo. La modesta domanda di titoli pubblici che si è vista nel fine anno è infatti una domanda drogata da tassi d’interesse insostenibili a lungo andare per l’Italia e dall’alluvione di liquidità e di pressioni che piovono rispettivamente dalla BCE e dalle autorità.
La cura Monti, pertanto, appare finora come un tampone doloroso ed inadeguato per l’emorraggia del deficit pubblico, con errori d’impianto ed iniquità per compiacere il populismo della cultura dominante.
Perché erronea nell’impianto? In primo luogo, come è di tutta evidenza, si insiste soprattutto nel sottrarre agli italiani fette sempre più grandi di quanto producono o hanno risparmiato, rafforzando in tal modo l’incentivo atavico ad evadere il fisco e ad esportare i risparmi all’estero. La migliore arma contro l’evasione è invece una tassazione relativamente leggera e semplice nell’applicazione, non la giungla di distinguo e preferenze del sistema fiscale attuale.
L’altro grande errore sta nel trascurare la centralità del problema della riduzione del debito. Più semplicemente, il governo resta prigioniero del passato nel considerare prioritaria solo la riduzione del disavanzo, nella falsa credenza che il debito accumulato, insieme al nuovo che si continua a creare, saranno coperti dal mercato come nel passato. Ma i mercati non stanno più al gioco da quando il rapporto debito/PIL supera il 120% ancora nel 2011, in quanto a questi livelli la solvibilità del paese è già in bilico.
Il terzo errore sta nell’insistere come nel passato sul prelievo fiscale come arma principale per intaccare deficit e debito, piuttosto che seguire un approccio bilanciato tra tasse, tagli di spesa e dismissione rapida di beni pubblici di Stato, Comuni e Provincie. Usando così massicciamente la tassazione, invece, si trascura che è già su livelli troppo alti sia in rapporto al bisogno di incentivare la crescita, sia se confrontata con la qualità dei servizi pubblici che si restituisce in contropartita. Nel contempo, è distribuita in modo da penalizzare particolarmente la classe media, che è quella che meno evade e più contribuisce alla formazione della ricchezza. La dismissione di parte del patrimonio pubblico, invece, gioverebbe molto se fosse destinata solo a ritirare debito pubblico già da quest’anno, perchè sarebbe un segnale forte per riconquistare credibilità sui mercati.
Il quarto grande errore sta nel non aver affrontato con decisione il capitolo delle riforme, esplicitandone i contenuti principali sin dall’inizio e spiegando al Paese che queste sono essenziali per uscire dal declino. Le esitazioni iniziali hanno al contrario ridotto questo capitolo a mere intenzioni, la cui realizzazione è soggetta oggi a concertazioni, il cui esito si può dire già scontato: solo qualche ritocco al margine senza intaccare il nocciolo duro delle rigidità che frenano da due decenni ogni sviluppo economico e sociale.
Sono errori di grande impatto, che marcano il corso delle politiche di Monti e le sue possibilità di successo, ma che rientrano nella normalità degli eventi. Errare humanum est. Ben diverso è tuttavia il discorso sull’equità che il governo ripetutamente sbandiera, in quanto non si tratta di scelte tecno-politiche, ma di una concezione molto opinabile di ciò che sia equo o non. L’interpretazione propugnata dell’equità consiste nel salvaguardare i bassi redditi ed infierire sul ceto medio, oltre che sugli alti redditi, come pure sul patrimonio di entrambi, senza tenere conto della fonte di questi redditi, del merito nel guadagnarseli, e del patrimonio. In breve, fare equità per il governo significa fare redistribuzione di redditi e di patrimoni, col risultato ultimo di scoraggiare il merito, l’impegno nel lavoro, o nell’intraprendere il rischio di un’impresa, o il risparmio. Conseguenze queste molto nefaste per un Paese che ha grande bisogno di spirito di innovazione, di far emergere e prevalere il merito, di generare un consistente rispamio netto, dato tra l’altro il notevole deficit nella bilancia corrente con l’estero.
Gli esempi di pseudo-equità o tout court d’iniquità nella cura Monti non sono di poco conto. Nel decurtare la spesa pensionistica, ad esempio, non si incide sulla folta schiera di coloro che ricevono attualmente vitalizi senza aver versato almeno 40 anni di contributi, ma si usa come criterio solo il livello della pensione. Se è sotto una soglia giudicata bassa, nessuna penalizzaizone per l’inflazione, anche se a fronte di questo basso livello stanno meno di 40 anni di contribuzione, o pensionamenti prima dei 65 anni, o reversibilità ingiustificate a favore di coniugi, o salti in alto nella retribuzione pochi anni prima del pensionamento, o redditi familiari nettamente superiori. Di questi criteri va tenuto conto per equità nel deindicizzare le pensioni all’inflazione, perchè altrimenti si viola il diritto del lavoratore a godere del risparmio effettuato versando i contributi, si appiattisce il ventaglio pensionistico in spregio delle storie lavorative e dei meriti professionali, si predano i risparmi altrui. E non si dica che non si possono toccare i trattamenti già concessi, in quanto diritti acquisiti, perchè non esistono diritti acquisiti che siano intoccabili quando quei diritti hanno contriuito a generare la crisi. Altrimenti, si consolidano le iniquità del passato con altre iniquità, piuttosto che correggerle.
Altro caso di iniquità è il venir meno all’impegno preso dallo Stato con il condono sui capitali rientrati dall’estero, pretendendo dopo 10 anni nuovi prelievi. In tal modo, oltre a frantumare quel poco di credibilità che ancora resta allo Stato, non si distingue tra quei capitali che nascono da lavoro all’estero e sono già stati tassati, da quelli che sono effettivamente andati dall’Italia all’estero. Al tempo stesso, in una fase in cui il Paese ha bisogno di importare capitali per coprire i suoi disavanzi interno ed esterno, si fornisce uno stimolo ad esportarli legalmente o illegalmente.
Ancora un esempio di iniquità, il tassare con aliquote progressive l’investimento in abitazioni. Se queste hanno da sempre rappresentato un forte incentivo al risparmio e a generare ricchezza in Italia attraverso l’industria edilizia, peraltro oggi in crisi, la progressivià di questa tassazione è del tutto ingiustificata. Si aggiunga che vi è già una forma di progressività nel fatto stesso che gli immobili pregiati o in zone pregiate dovrebbero scontare valori imponibili più elevati delle altre.
Forma ancora più subdola di iniquità sta nell’assecondare le rigidità in uscita e nell’impiego del lavoro, perchè tendono a proteggere le imprese meno competitive a spese di quelle più dinamiche ed innovative.
Pur essendo queste forme di iniquità largamente sostenute da una certa cultura prevalente e purtroppo radicata nella società, non si può giustificarle in nome dell’equità perchè la contraddizione è stridente. Al contrario, applicare equità è sempre stato e sarà, come ci ricorda anche l’Osservatore Romano, “dare a ciascuno il suo”. La ridistribuzione di reddito e ricchezza da chi più ha a chi meno ha, è bene invece chiamarla ridistribuzione, esproprio, “solidarietà forzata”, “coesione sociale a senso unico”. E il professor Monti così attento alle circollocuzioni, saprà senz’altro trovare termini meno
inapproppriati dell’abuso fatto finora del termine “equità”.

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