Certo non poteva immaginarselo Guglielmo Epifani che gli ultimi giorni al vertice della CGIL sarebbero stati per lui tra i più tesi e complicati degli otto, lunghi anni di segreteria. Prima l’affondo della FIOM a Melfi e il teso referendum a Pomigliano; poco dopo la manifestazione di Roma con l’annuncio della più estrema delle minacce sindacali che lo ha costretto a ricordare dal palco di San Giovanni che lo sciopero generale è una delle armi che può essere utilizzata, anche se non l’unica.
Poi, come se non bastasse, il tam tam di voci e indiscrezioni che immancabilmente accompagnano ogni cambio al vertice – un futuro politico o no? con il Pd, per il quale ha votato, o magari con Nichi Vendola che platealmente lo abbraccia al congresso del suo partito? – alle quali lui risponde, altrettanto immancabilmente, che per ora leggerà, studierà e farà ricerca, come peraltro prescrive l’incarico di presidente della Fondazione CGIL cui è stato destinato. Infine, la nuova provocazione di Sergio Marchionne che al tavolo delle trattative con il governo e il sindacato ha preferito lo show da Fabio Fazio (Senza l’Italia faremmo meglio), su cui persino gli azionisti della Fiat sono corsi ai ripari (Via dall’Italia? Niente di più sbagliato).
Inevitabile che proprio da qui cominciasse il colloquio che gli aveva chiesto “L’espresso” per fare un bilancio del suo lavoro di sindacalista alla vigilia del 3 novembre, ultimo giorno di lavoro alla CGIL.
L’attualità preme. Ed Epifani esordisce polemico: “In molti sognano la Germania. Ma allora il modello tedesco andrebbe preso tutto, e non solo per la parte che si preferisce: cosa sarebbe successo in Germania se l’amministratore di un grande gruppo avesse parlato in diretta tv di un’importante trattativa, delegittimando i suoi interlocutori naturali e dicendo falsità, come ha fatto Sergio Marchionne sui turni di Mirafiori? Sarebbe stato cacciato. Se la Fiat ha 22 mila lavoratori in cassa integrazione non può pensare di avere utili; e se sono in cassa integrazione è perché sul mercato i suoi modelli non si vendono”.
Allora, Epifani, lo scontro si fa di nuovo duro? Dopo tanti sforzi per costruire un’immagine riformista della CGIL, è di nuovo l’ora di un conflitto frontale con il governo?
“Ho seguito le scelte del direttivo della CGIL: aspettiamo la manifestazione del 27 novembre e poi decideremo. Faccio notare che abbiamo già fatto due scioperi generali quest’anno: a luglio, e a marzo. E non ho sentito polemiche al riguardo. E poi, stiamo parlando forse di un governo che fa cose pro-labour, che fa politica industriale, che investe in ricerca come gli altri governi europei, che alleggerisce le tasse sul lavoro dipendente? O non piuttosto di un governo che fa tutto il contrario?”.
Però si sono di nuovo enfatizzato le divisioni con CISL e UIL, che di sciopero non vogliono sentir parlare. L’unità sindacale non è più un valore?
“Certo che lo è, e infatti in tutta Europa i sindacati stanno agendo uniti di fronte alla crisi, anche se prima erano divisi”.
È il contagio della protesta contro Sarkozy?
“No: è la CISL che dice che scioperano solo i sindacati comunisti. In Europa scioperano tutti, o manifestano contro i governi, che stanno facendo pagare la crisi ai più deboli. In Italia, solo la CGIL si è mossa”.
Non solo qui, monta di nuovo la rabbia operaia?
“Quando la gente perde il lavoro, si arrabbia eccome. Se non è avvenuto quello che abbiamo visto nelle strade di Parigi o di Atene, è perché noi sappiamo governare la conflittualità, e se neanche un sasso ha rotto una vetrina, va riconosciuto che è merito della CGIL”.
Nel 2001 lei prese il posto di Cofferati dopo la battaglia in difesa dell’articolo 18 sul licenziamento, e della manifestazione del Circo Massimo. Allora il governo Berlusconi fece marcia indietro. Oggi lo scenario è rovesciato: tutte le sicurezze del mondo del lavoro sono minate. Non è un gran bilancio.
“Siamo stati i primi a porre il problema del declino industriale e a segnalare la lenta redistribuzione del reddito a sfavore dei salari. Allora ci chiamarono catastrofisti. Oggi tutti parlano di declino, anche il mondo confindustriale. D’altra parte in questi anni si è avuto il più lungo governo di centrodestra, e l’attuale è più accorto e furbo del precedente. E per prima cosa ha diviso il sindacato”.
Dimostri che è un obiettivo che viene da lontano.
“Anche allora c’era Sacconi, anche allora Bombassei; anche nel 2001 con il Patto dell’Italia fu fatto il tentativo di dividerci. Oggi, è questa la novità, non è stato fatto mai alla luce del sole. È stata una divisione lavorata dietro le spalle, in incontri riservati: mai proposto un tavolo pubblico di riflessione, sulla crisi, sulle manovre. Solo incontri di rito. In questo è stato un governo più insidioso”.
Quando ve ne siete accorti?
“Quando ci fu la cena riservata con Bonanni, Angeletti e la Marcegaglia a casa di Berlusconi, che lui smentì, ma che c’è stata. La divisione ha finito per creare un sindacato di opposizione e uno di governo”.
Che contropartita hanno avuto CISL e UIL?
“Bisogna chiedere a loro. Ma è una situazione pericolosa: una volta che dividi, rendi ingovernabili i luoghi di lavoro”.
Nostalgia dei tavoli a palazzo Chigi?
“Avevano un vantaggio: permettevano soluzioni più trasparenti, più razionali, e la trattativa. Per esempio, di fronte all’innalzamento dell’età della pensione, noi avremmo preteso un innalzamento delle pensioni per i giovani. Invece niente”.
Agli industriali va meglio così?
“Il governo ha corporativizzato il consenso: ha stabilito un rapporto diretto con le singole rappresentanze degli interessi. Gli industriali ne hanno tratto vantaggi, ma anche loro oggi vivono una stagione di disincanto”.
Quali settori sono stati privilegiati?
“Quelli dove contavano i rapporti internazionali: penso al settore energetico; agli interessi dietro gli accordi con la Libia; a quelli dietro infrastrutture demenziali come il ponte sullo Stretto. Gli interessi dei grandi. Mentre il governo ha lasciato a se stessi i piccoli e i medi”.
Ma la Marcegaglia appare alquanto tremontiana.
“Lo è a giorni alterni: perché la sua base elettorale attende”.
L’ultimo momento unitario dopo l’articolo 18?
“Proclamare uno sciopero se il governo Prodi non fosse intervenuto sul fisco. Quello che rimprovero a CISL e UIL è che, mentre con Prodi noi eravamo pronti a scioperare, in questi due anni e mezzo non si è fatto nulla, anzi: lo scudo fiscale è stato un condono, l’Ici è stata tolta ai più abbienti e oggi loro restano zitti”.
La CISL ha fatto la sua manifestazione…
“Sto parlando di scioperi: l’abbiamo fatto da soli, in febbraio”.
“Non si è pentito della rottura sul nuovo modello contrattuale?
“Lo abbiamo fatto per quattro motivi molto seri. Uno: il nuovo modello fa pagare solo ai lavoratori l’inflazione importata. Due: introduce deroghe definitive al contratto nazionale, il che vuol dire farlo sparire. Tre, le sanzioni: si applicano solo ai lavoratori e mai all’impresa (se la Fiat non fa più un modello, che sanzione dai?). Quattro: la contrattazione di secondo livello, che a parole tutti vogliono allargare, è rimasta quella dell’accordo del ’93. Così è successo che noi abbiamo firmato tutti i contratti dove non c’erano quelle cose, e non quelli con deroghe e sanzioni, tipo il contratto dei meccanici. A conferma che quando c’è la CGIL si fanno i contratti migliori, dove non ci siamo, si sommano incertezze e conflitti. Non ha senso tenere fuori dall’accordo il sindacato più grande”.
Un bello spot di propaganda.
“Altroché: dove la Fiom è forte, le imprese non applicheranno il nuovo contratto; dov’è debole, sarà messa all’angolo e reagirà balcanizzando il conflitto”.
È per questo che serve una legge per regolare i meccanismi della rappresentanza.
“Direi rappresentanza e democrazia. Cioè come si validano accordi e come si misura la rappresentatività delle organizzazioni. Sulla rappresentatività sono tutti d’accordo: deve essere un mix tra le deleghe e il voto delle Rsu. Peccato che nel settore pubblico, dove si dovrebbe votare a novembre per eleggere centomila delegati, Brunetta stia cercando di rinviare…”.
E sul tema di chi decide quando i sindacati hanno opinioni diverse?
“A Pomigliano c’è stato un referendum. Se si fa lì, si deve fare dappertutto. O solo dove si è convinti di vincere? “.
Gli altri sindacati non vogliono il voto?
“La mia impressione è che dicano sì ma che prendano tempo. Perché a Pomigliano si è andati al referendum se la maggior parte dei delegati aveva sottoscritto l’accordo? Perché c’era un forte dissenso, ed è stato necessario il ricorso ai lavoratori. Domando: e allora perché non si è votato anche sul tema delle deroghe, che CISL e UIL hanno firmato per i metalmeccanici pochi giorni fa?”.
Legge sì o legge no?
“Preferisco l’accordo tra i sindacati e poi una legge che confermi l’accordo. Ma se non ci si riesce, dobbiamo chiedere la legge”.
La delega sindacale a cosa deve servire?
“A firmare. Si vota sempre quando tutti sono d’accordo. La cosa strana è che non si voti quando l’accordo non c’è… Perché a Pomigliano l’azienda si è fermata dopo il risultato del referendum con il 60 dei sì? Quello che conta nelle relazioni sindacali è il consenso di tutti. Perché i turni li fanno gli operai”.
Nessun mea culpa sulla produttività così bassa delle nostre fabbriche?
“Non è che in Italia non si lavora. Noi lavoriamo come i tedeschi, solo che lì hanno una produttività-paese diversa dalla nostra, con imprese dove l’innovazione è motore della crescita, che investono nella qualità”.
Le ipertutele nei luoghi di lavoro non andrebbero emendate?
“È come prendersela con l’Albania e non con la Cina: il cuore del problema è la politica industriale, la dimensione d’impresa, i servizi, la struttura finanziaria. Quando gli imprenditori credono in quello che fanno vanno avanti, quando pensano a comprare palazzi, banche, giornali, non ce la fanno”.
Siamo meno sensibili alle battaglie sul lavoro?
“È un paese allo sbando, e la battaglia per la centralità del lavoro è molto difficile. Quando sono diventato segretario c’era la speranza che si potesse cambiare il quadro politico. Ma oggi, a chi affido oggi questa speranza?”.
Non le piace questo centrosinistra?
“Il centrosinistra è in difficoltà. È necessario costruire un’alternativa vera a questo governo, una forza in grado di rappresentare una speranza. Ci vuole un progetto alto, poi si cercherà una leadership”.
Luca di Montezemolo può esserlo?
“Ho sempre avuto buoni rapporti con lui. Ma non ho ancora capito cosa voglia né da che parte intenda stare”.
Tentato dalla politica?
“La scelta di oggi è lo studio e la ricerca. È un modo di dare una mano a un progetto”.
Epifani:”Divisi non si vince”
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