L’emissione del Btp Italia non è una svolta nella vicenda
del debito. Che è segnata da un grave virus: la ricerca
di nuove imposte. Quando invece servirebbe una decisa
azione di dismissione del patrimonio pubblico.
Sotto la spinta della sistemazione del debito greco e della forte immissione di euro da parte della Bce, lo spread tra Btp e Bund è tornato su livelli inferiori parificandosi a quello spagnolo, ma la sua elevata persistenza testimonia che i mercati valutano ancora esistente un rischio Italia. Le ragioni principali sono almeno due: le incertezze su chi governerà il Paese da qui a un anno, quando il governo tecnico cesserà di operare e la crisi avrà toccato il suo apice, e il livello del nostro debito pubblico che, alla luce del Trattato europeo firmato il 2 marzo (conosciuto come fiscal compact), deve essere drasticamente ridotto. Non basta più, semmai fosse bastato, l’azzeramento del passivo di bilancio pubblico, occorre anche avere un attivo annuo (cioè entrate maggiori delle spese) tale da rimborsare in un ventennio la metà del nostro debito pubblico.
Le due ragioni si reggono a vicenda, perché una politica come quella richiestaci dall’Ue richiede la sospensione della dialettica tra partiti e comportamenti rigorosi della politica, che non sembra alle porte. Se non fosse già venuta a noia, la proposta di cedere con opportune tecniche il patrimonio pubblico sarebbe il suggerimento migliore per il passo da compiere. Per far ciò, occorre però bloccare le vendite spicciole dei beni dello Stato e, soprattutto, dei Comuni per soddisfare esigenze contingenti e così sfuggire alla richiesta di contribuire a una soluzione definitiva, non deflazionistica, dell’impegno europeo.
In passato, i funzionari del Tesoro si sono cimentati con successo nel trovare soluzioni per alleggerire l’onere del debito pubblico e diluirne i tempi di rimborso. Essi sono ancora in azione, come t testimonia l’annuncio che il 19 marzo verranno emessi titoli con caratteristiche diverse da quelli in circolazione (Btp Italia). Questi non rappresentano una svolta nella vicenda del debito pubblico italiano, ma un utile strumento che porta sollievo ai conti dello Stato e che potrebbe convincere il mercato a dare un ulteriore taglio allo spread. Senza però un’operazione di finanza straordinaria che abbatta il debito pubblico, le due ragioni per tenerlo elevato permangono integre e anzi si rafforzano.
Dal lato delle tasse non c’è giorno che qualcuno del governo centrale, dei governi locali, dei partiti, delle parti sociali o degli editorialisti, accademici o meno (con la lodevole instancabile eccezione del collega Oscar Giannino), non proponga di aumentarle, inventandone di nuove. Manca solo auspicare il ritorno della tassa sul macinato. Poiché questo pensiero unico non ha eccezioni, può darsi che il fenomeno sia dovuto alla rapida diffusione di un virus che ha ormai generato una pandemia mentale che non trova per ora cura adatta. La stessa Commissione europea ne è affetta, perché nella nuova proposta di bilancio per il 2014-2020 dichiara di voler ricercare proprie tasse, con la seguente ridicola affermazione di non voler gravare sui bilanci degli Stati, come se le risorse dei bilanci statali cadessero come manna dal cielo e non venissero pur sempre dalle tasch dei cittadini.
La fase terminale di questa pandemia è la richiesta di una tassa patrimoniale che le forze politiche preferiscono alla cessione del patrimonio pubblico perché strategico (ovviamente per loro) e le rappresentanze di interessi prediligono nel convincimento che possano ricavarne qualcosa. L’aumento delle tasse, senza riduzione delle spese, finanzia l’eccesso di spesa pubblica, cioè gli sprechi, gli abusi e le inefficienze dello Stato, il vero handicap della crisi italiana da lunga data.
E giunto il momento di porre al centro del dibattito politico il tema, per convincere i cittadini che la crescita del reddito e una sua più equa distribuzione non si realizzano mai e poi mai con le tasse.
Epidemia in corso: ormai manca solo la tassa sul macinato.
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