• giovedì , 26 Dicembre 2024

Enel, Telecom, Fiat, Snam perche’ i grandi gruppi dicono no agli aumenti di capitale

COMANDARE MOLTO CON POCO È SEMPRE STATA LA REGOLA DEL CAPITALISMO FAMILIARE ITALIANO. MA SE ANCHE CI FOSSE LA DISPONIBILITÀ A DILUIRSI IL MERCATO NON SEMBRA DISPOSTO A PREMIARE PROGETTI TESI SOLO A RIDURRE IL DEBITO
«Basterebbero 20 miliardi di sostanziosi aumenti di capitale per ridare respiro alle poche grandi imprese che ci sono rimaste e far ripartire loro e l’Italia – dice un banchiere – c’è un oceano di liquidità in giro per il mondo in cerca di occasioni per investire, ci vorrebbe un po’ di coraggio». I nomi a cui pensa il banchiere sono Enel e Telecom, Fiat e Finmeccanica, Snam e Generali. In effetti a guardare i conti qualche miliardo di debito in meno e qualche miliardo di capitale in più farebbero un gran bene a tutte quante e aiuterebbero ad accelerare gli investimenti. Ma non tira aria. Lo stato, azionista (direttamente o attraverso la Cassa Depositi e Prestiti) di Enel, Finmeccanica e Snam non ha risorse da destinare alla bisogna e gli azionisti privati, vicenda Rcs docet, rabbrividiscono alla sola idea di mettere mano al portafoglio. Un’impresa che ha ambizioni globali dovrebbe accedere al mercato mondiale dei capitali, liberamente, senza vincoli di controllo, ma come dice uno studioso della finanza italiana che sta sulla breccia da molti anni: «Io, di aumenti di capitale diluitivi non me ne ricordo neanche uno». E’ la solita vecchia ossessione del controllo, che fa a pugni con la crescita ed è il cappio al collo di ogni ambizione di sviluppo. Chi ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, come hanno fatto Enel con la spagnola Endesa e in misura minore Finmeccanica con l’americana Drs Technologies, si trova sul groppone una montagna di debiti assai faticosa da sostenere. Chi vorrebbe ritrovare un respiro globale come un tempo l’aveva Telecom, si ritrova debiti fatti non per entrare in nuovi mercati ed espandere le sue attività all’estero (che anzi aveva a sono state vendute per tappare i buchi) ma per coprire i costi di due scalate poco assennate di cui è stata fatta oggetto. Chi come Generali potrebbe fare il grande salto e mettersi al livello delle sue rivali Allianz e Axa, non può farlo perché di risorse interne per fare quel salto non ci sono. Ma l’aumento di capitale è tabù, gli azionisti, pubblici o privati che siano, non ci stanno a cacciare i soldi e neanche a ridurre la propria quota di controllo. Comandare molto con poco è la regola. Confermata dal duello tra Tronchetti e Malacalza in Camfin, dove il pomo della discordia è stato la scelta su come rimborsare un debito in scadenza, se con un aumento di capitale o con la cessione attraverso una obbligazione convertibile di un pezzo della controllata Pirelli. Il problema però va oltre. Se anche gli azionisti di riferimento accettassero di investire o di diluirsi, il resto il mercato lo metterebbe? E a quale costo? Sono le prime domande da porsi, e le risposte sono complesse e non incoraggianti. La prima cosa che il famoso mercato vuole sapere di fronte alla proposta di un aumento di capitale, è per fare cosa. Nella maggior parte dei casi elencati la risposta più trasparente è la seguente: per ridurre i debiti. Oggettivamente non è abbastanza. Anche perché la ragione che c’è dietro quei debiti non è sempre incoraggiante. Acquisizioni sbagliate, acquisizioni fatte a prezzi troppo alti rispetto alla redditività dell’investimento, scalate troppo ambiziose o intempestive. Da Recoletos ad Antonveneta a Enedmol la lista è lunga. Si tratta di tappare buchi più che di costruire futuro. Resta il fatto che il debito è un problema, visto che il rapporto tra il debito finanziario e il capitale netto tangibile delle principali società quotate è pari a 3,8 volte. Troppo. Ma è un problema per le aziende e per gli investimenti, quindi per il sistema Italia, non un fattore capace di attrarre capitale di rischio. Un aumento di capitale proposto oggi al mercato internazionale deve avere alle spalle non solo un piano strategico ma un progetto, una opportunità convincente che realisticamente prometta una adeguata redditività. E qui veniamo alla seconda domanda: quale rendimento si aspetta l’investitore? Ovvero, dal punto di vista dell’azienda emittente: quanto costa il capitale? Ricerche e Studi di Mediobanca calcola che il costo dell’equity per un’azienda italiana oggi sia del 6,1 per cento, pari al rendimento del bund decennale tedesco del 2,6 per cento più un premio del rischio del 3,5 per cento. Nella maggior parte dei casi non conviene. Il costo medio del debito per le principali società quotate italiane nel 2011 era del 4,9 per cento, con oscillazioni che vanno dal 2,3 di Mediaset al 3,1 di Terna, al 3,9 di A2a, al 3,1 dell’Eni, al 4 di Prysmian, le aziende che pagano meno, al 5,6 di Buzzi, di Enel e di Fiat, al 5,5 di Pirelli, fino all’8,9 di Impregilo, quella che paga di più. Sulle prime 20 aziende quotate, solo 3 hanno un costo del debito superiore al costo dell’equity, tutte le altre lo hanno più basso. Grazie anche ad un vantaggio offerto dal fisco italiano, che non si capisce bene il perché ma privilegia ancora il debito al capitale. Oltre al fisco poi c’è l’Italia stessa, che da molti anni a questa parte non è percepita come il luogo dove investire capitale di rischio. La liquidità c’è, ma preferisce andare dove l’economia cresce molto, come nei pesi emergenti, o dove i rischi sono più bassi, come la Germania, la Svizzera, gli stessi Stati Uniti. L’Italia non può offrire né l’una né l’altra cosa. Tutto questo spiega molto ma non tutto. C’è qualcosa di più, e questo qualcosa sono i numeri dei flussi della borsa italiana. Si dice che la borsa è importante perché serve per far affluire il risparmio alle aziende che così raccolgono le risorse per investire e per crescere. Ma dobbiamo stare attenti: se oggi compriamo un’azione Fiat o Eni i soldi che stiamo investendo non vanno alla Fiat o all’Eni ma ad altri soggetti che avevano quei titoli in portafoglio e hanno deciso di disfarsene. I soli momenti in cui i denari degli investitori arrivano alle aziende sono quando sottoscrivono un aumento di capitale o le azioni collocate in occasione di una nuova quotazione (anche in questo caso solo con l’acquisto di azioni emesse con un aumento di capitale finalizzato alla quotazione, mentre i denari per l’acquisto di quelle cedute dai proprietari vanno nelle tasche di questi ultimi). Ebbene, tenendo conto di tutto ciò e andando a vedere cosa è successo tra il 2002 e il 2011, sono molti più i denari usciti dalle società quotate in borsa per remunerare i loro azionisti che quelli entrati con gli aumenti di capitale e in occasione delle offerte pubbliche di acquisto legate alle nuove quotazioni. Con i dividendi infatti le aziende hanno complessivamente distribuito 248,3 miliardi (la sola Telecom tra il 1999 e il 2007 ha distribuito 20 miliardi di dividendi e dato al mercato con la fusione Olivetti-Telecom e l’acquisto di minoranze di Tim altri 36 miliardi), mentre dagli aumenti di capitale tutte le società quotate hanno incassato complessivamente 83,3 miliardi, un terzo di quanto è uscito, e le Ipo hanno consentito di raggranellare in dieci anni la piccola cifra di 3,8 miliardi. Di quegli 83,3 miliardi degli aumenti di capitale, ben 36,1 sono stati raccolti dalle banche, costrette a ricorrere al mercato dalle prescrizioni dell’Eba e di Basilea III, ovvero da fattori regolamentari esterni (e da buchi interni). Le assicurazioni hanno raccolto 6,9 miliardi, le aziende industriali poco più di 40. Potrebbe sembrare la fotografia di un mondo felice, nel quale le imprese producono una grande ricchezza e possono remunerare generosamente i loro azionisti, e ne producono tanta non solo da remunerare gli azionisti ma anche da finanziare ricerca, innovazione, crescita e sviluppo. Non è così, o meglio, lo è solo in parte. Perché c’è un gruppo di aziende, nella moda, nella chimica fine, nella meccanica che cresce con l’autofinanziamento, ma ce ne sono molte altre che sono ferme sotto il peso dei debiti e bloccate dall’incapacità di proiettarsi nel futuro. Altre, molte di più, che potrebbero fare il salto dimensionale, vedono la Borsa come un costo, spesso come una indesiderata necessità di trasparenza, come il luogo dove il rischio Italia penalizza le capitalizzazioni e dove azionisti avidi e analisti di scuola tutta finanziaria spingono a puntare troppo sui risultati a breve termine. Tutti hanno le loro più o meno buone ragioni, ma c’è un problema: il paese è inchiodato. Le banche non hanno più la possibilità di finanziare i grandi e i piccoli, le imprese e le famiglie, la coperta è sempre più corta e da qualche parte qualcuno rimane sempre scoperto. Per far partire un ciclo positivo le grandi e le medie imprese devono rivolgersi sempre di più al mercato azionario e obbligazionario per rendere disponibile credito ai settori dell’economia, piccole e piccolissime imprese e famiglie, che sul mercato non ci possono andare. Il processo è già iniziato con un gran revival dei corporate bond e il debutto si spera promettente dei minibond. Ma per la ricerca e l’internazionalizzazione non è il credito (bancario o obbligazionario) lo strumento giusto, ci vuole capitale di rischio, che il fisco deve incentivare e il mercato non più penalizzare.

Fonte: Affari e Finanza del 22 aprile 2013

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