di Fabrizio Onida
Un 2024 così denso di scadenze elettorali, che interessano quasi la metà della popolazione mondiale, invita a chiedersi quali tendenze emergono nel ricorrente dibattito sui meriti e demeriti del cosiddetto neoliberalismo, in un mondo segnato da risorgenti nazionalismi identitari. Un utile contributo viene dal sintetico confronto di opinioni tra economisti di assai diversa estrazione intellettuale raccolto dall’americano Project Syndicate.
Anne O. Krueger, già capoeconomista della Banca Mondiale e vice-direttore del Fondo Monetario internazionale, ci ricorda che l’affermarsi di politiche neoliberiste nel Sud del mondo (inclusa la Cina neo-membro della WTO dal 2001) ha ottenuto lo straordinario risultato di far crollare nel 1990-2020 la povertà estrema dal 58 % al 9% della popolazione mondiale, mentre nello stesso trentennio sono stati fatti progressi in campi come il divieto del lavoro minorile, l’obbligo dell’istruzione primaria, l’assistenza sociale a favore dei disoccupati e dei ceti svantaggiati. Le politiche industriali dei governi si sono crescentemente orientate al sostegno di settori nuovi e delle moderne infrastrutture, col risultato di accrescere la produttività del sistema, purtroppo rischiando di scatenare guerre di sussidi “a somma zero” e assecondare la pericolosa tendenza dello Stato a “scegliere i vincitori”.
Michel R,Strain, economista del conservatore American Enterprise Institute, ammette che le politiche “post-liberali di Trump e Biden hanno danneggiato i consumatori facendo salire i prezzi e producendo ben pochi nuovi posti di lavoro nel fragile settore manifatturiero americano (anche perché l’efficacia dei generosi sussidi americani viene erosa dalle misure di rappresaglia dei paesi terzi). E accusa l’enorme stimolo di 2000 miliardi di dollari, introdotto da Biden nel marzo 2021, di aver gravemente compromesso l’impegno ad una fondamentale responsabilità fiscale dello Stato.
Secondo Mehrsa Baradaran, giurista della University of California, il neoliberalismo è stato paradossalmente un cavallo di Troya per alimentare una classe burocratica e interventista di 11 milioni di impiegati pubblici, facile preda della corruzione delle lobbies dei grandi gruppi.
Sulla stessa scia il Nobel dell’economia Joseph E. Stiglitz, autore del recente libro “The Road to Freedom: the Economics and the Good Society” accusa l ‘agenda neoliberale e le professioni di “free trade” di essere una foglia di fico per nascondere un rafforzamento del potere dei grandi gruppi oligopolistici (sia agrari che basati sullo sfruttamento delle energie fossili e sul predominio nelle alte tecnologie), lasciando i paesi della periferia del mondo in condizioni neocoloniali di dipendenza dall’industria estrattiva e dall’agricoltura povera. Stiglitz cita come clamoroso fallimento delle regole della Wto il dramma dei 1,3 milioni di morti della pandemia Covid-19 a causa delle restrizioni alla diffusione dei vaccini in nome dei diritti della proprietà intellettuale: tema delicato e largamente irrisolto nel confuso dibattito su sovranità nazionale, diritti proprietari e diritti umani fondamentali.
Mariana Mazzucato, docente di Economics of Innovation and Public Value all’University College di Londra e paladina dello “Stato imprenditore”, dal titolo del suo fortunato pamphlet di dieci anni fa, insiste a invocare un nuovo “contratto sociale” fra Stato e comunità degli affari, tale per cui l’accesso delle imprese private ai sussidi pubblici dovrebbe essere condizionato all’impegno a reinvestire i profitti in attività di ricerca e formazione secondo grandi indirizzi di politica industriale “mission oriented” che massimizzano la produzione di beni e servizi pubblici. Sostenibilità ambientale e digitalizzazione dei servizi sono campi in cui lo Stato non si limita a regolare (fixing) il mercato ma arriva a condizionarne l’evoluzione (shaping).
Dani Rodrik, mente libera e lungimirante acuto esponente della Harvard Kennedy School of Government, non rimpiange il consenso neoliberale gravemente intaccato dai nuovi scenari geopolitici in tema di sicurezza, cambiamento climatico e resilienza delle catene globali di approvvigionamento, ma sostiene che tutto dipende dalla natura reattiva o costruttiva della risposta dei governi. La risposta reattiva, dominata dal terrore per la rapida ascesa del potere economico della Cina e dall’ossessione della perdita di competitività (tu vinci, io perdo), porta a militarizzare (weaponizing) il commercio estero per finalità geopolitiche e rifiutare la “rule of law”.
La risposta costruttiva non dà invece troppo peso alle scelte altrui di politica industriale, ma si concentra su obiettivi di creazione di posti lavoro domestici a medio-alto valore aggiunto, lotta al cambiamento climatico abbandonando i combustibili fossili, ribilanciamento dell’economia maggiormente in difesa dei ceti deboli e dei ceti medi e meno condizionato dal potere finanziario e di mercato dei grandi gruppi oligopolistici.
C’è molta materia per una riflessione non partigiana su fatti e teorie.
(Il Sole 24ore, 11 giugno 2024)
Fonte: Il Sole 24ore, 11 giugno 2024