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Elezioni, non come ma quando

Il piano di rilancio dell’Italia e del taglio del debito pubblico richiede necessariamente un contesto di “grande coalizione” per essere realizzato. Sono disposte le forze politiche ad assumerlo come programma della prossima legislatura? Se sì, votare a novembre o a marzo è indifferente, basta attuarlo.
Circola con sempre maggiore insistenza,e suffragata da firme autorevoli, l’idea che si debba andare a votare inautunno. No, non parliamo delle voci di chi fin dall’inizio ha bollato ilgoverno Monti prima un usurpatore e poi un affama-popolo (la Lega, Di Pietro,la sinistra dura e pura, la destra dentro e fuori il Pdl). Mi riferisco a chi –da Scalfari a La Malfa, da Giacalone allo stesso Casini (seppure con moltaprudenza) – ha posto la questione delle elezioni anticipate non come giubilazionedi Monti ma come atto di tutela della stabilità politica prodotta dallaconvergenza delle forze che dal 14 novembre scorso appoggiano il cosiddetto“governo tecnico”. Capisco il ragionamento, ma non mi convince fino in fondo.Prima di affrontare il tema, però, facciamo un passo indietro, propedeutico afare chiarezza.
Dunque, l’esecutivo Monti è statosalutato come benefica discontinuità rispetto non solo all’agonizzante governoBerlusconi, ma rispetto alla impotente alternanza prodotta dal nostro bipolarismomalato. Bene, questo era e rimane il suo merito maggiore. Esso è stato prodottoda un’emergenza, quella dello spread e della conseguente crisi dell’euro,contro la quale Monti si è mosso promettendo che i sacrifici che era costrettoa chiedere agli italiani sarebbero serviti a sconfiggere quel mostro. Orasappiamo che così non è stato. Certo si può sostenere – e io sono tra questi –che senza le manovre di Monti staremmo peggio della Spagna, e che per un paesecome il nostro, abituato a raccontarsi e farsi raccontare favole, portare acasa (senza colpo ferire, tra l’altro) la riforma delle pensioni e aver messoal fuoco la pentola delle liberalizzazioni e della trasformazione del mercatodel lavoro e aver avviato una spending review seria, è comunque un granrisultato. Vero, in vent’anni di bipolarismo si è fatto molto meno che neipochi mesi di Monti. Questo non toglie, però, che il risultato che si volevaperseguire sia stato mancato. Un po’ perché non dipendeva (solo) da noi, e nelconsesso europeo riconquistare il diritto a stare a tavola – a suo tempo persocon ignominia – è stata condizione necessaria (di cui va dato atto a Monti,anche se è dipesa più dall’autorevolezza del suo curriculum vitae che da ciòche ha concretamente fatto da premier) ma non sufficiente. E un po’ perché, sulpiano interno, il governo ha commesso due errori esiziali, tra loro correlati:ha scelto la strada dell’azzeramento del deficit – perseguibile solo coninasprimenti fiscali e provvedimenti recessivi – e non della riduzione deldebito; ha preteso di fare sviluppo solo con scelte normative, mentre per unpaese che viene da un quindicennio (1992-2007) di crescita prima rallentata epoi zero – mentre il mondo cresceva come mai nella sua storia – e da unquinquennio (2008-2012) di recessione (se quest’anno sarà -2,4%,complessivamente avremo perso sette punti di pil e il 20% della produzioneindustriale), senza soldi non si va da nessuna parte. E le risorse, sia perabbattere il debito che per fare investimenti in conto capitale, non potevano(potrebbero) che venire da una manovra coraggiosa e senza precedenti sulpatrimonio pubblico (da quotare in Borsa con l’ausilio di quello privato). Lamanovra shock, per capirci, che un gruppo di parlamentari capitanati da MarioBaldassarri aveva chiesto e che il governo ha però respinto, ribadendo la lineaesposta dal ministro Grilli di un taglia-debito light da 15 miliardi l’anno.
Insomma, il bilancio di questi novemesi di Monti ci impone di non tornare indietro – sia dal punto di vistapolitico, cioè alla improduttiva contrapposizione destra-sinistra, sia sotto ilprofilo dell’impegno nell’opera di risanamento dei conti pubblici – ma nellostesso tempo di cambiare strada, scegliendo la via di una maggiore fermezza nelporre ai partner europei (tedeschi, ma anche e soprattutto francesi) il temadell’unità politica come unico antidoto alla speculazione dei mercati, eassumendo l’operazione “patrimonio-debito-sviluppo” come perno della politicaeconomica nazionale. Mi domando: si può fare? Monti è disposto? E consideratoche trattasi di piano – a me piace definirlo liberal-keynesiano – che richiedenecessariamente un contesto di “grande coalizione” per essere realizzato, sonodisposte le forze politiche ad assumerlo come programma della prossimalegislatura? Se sì, votare a novembre o a marzo è indifferente, basta attuarlo.E in quel caso sarà Monti a dover decidere se star dentro o fuori da quel nuovocontesto. Se no, invece, il vero tema da affrontare è cosa accadrà dopo leelezioni, e più tempo ci sarà per chiarirlo, meglio sarà. Ma in questo secondocaso, rischia di accentuarsi il senso di impotenza e logoramento che il governosta mostrando di avere e di subire. Perciò, sarebbe bene che le forze dispostea firmare quel patto di legislatura chiedano di entrare da subito nel governoMonti. Ponendo un vero e proprio out-out a chi recalcitra.
Ilrifacimento della legge elettorale, si cui molto si parla e poco si pratica, èsì importante, come tutti dicono, ma è una variabile secondaria. Se ci saràl’accordo sul programma della prossima legislatura e sul quadro di convergenzapolitica da realizzare per attuarlo, allora la legge potrà cambiare in sensofunzionale a questo disegno. Se invece l’accordo non ci sarà, è a dir pocoimprobabile che si trovi l’intesa sulla riforma, e allora ci si rassegni adandare a votare con la legge attuale. Pregando perché non accada quel che èsuccesso in Grecia.

Fonte: Liberal del 28 luglio 2012

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