Quanto pesa l’economia sommersa? Il presidente della Confindustria Antonio D’Amato non ha dubbi: nella sua relazione all’Assemblea del 24 maggio 2001 ha chiesto di “dimezzarne la dimensione, oggi al 28 – 30% del Prodotto interno lordo, secondo varie stime internazionali, portandola così al livello degli altri principali Paesi europei”.
La stime di D’Amato è destinata a entrare acriticamente negli archivi. D’ora in poi il sommerso “peserà” per il 30% dell’economia italiana, almeno sui giornali, come dimostrano riquadri e tabelle che in questi giorni sono comparsi sui principali quotidiani. E si intende che si tratta di un 30% aggiuntivo rispetto al Pil.
Da dove vengono questi numeri? In sostanza il presidente della Confindustria si basa su una ricerca del suo Centro Studi (Csc) del settembre scorso nella quale si citano tre fonti: l’Istat, la Commissione europea e i calcoli del professor Friedrich Schneider dell’università di Linz. Solo i calcoli di Schneider, che lo stesso Csc mostrava di voler prendere con le molle e che in passato erano stati ridicolizzati dal Sole 24 Ore, avallano una stima del Pil ai livelli indicati da D’Amato.
Vediamo la questione più in dettaglio. Gli statistici ufficiali dell’Istat e di Eurostat (con il consenso di gran parte della comunità scientifica) hanno rivisto di recente i numeri della contabilità nazionale con il sistema SEC 95, ma hanno sostanzialmente confermato le stime per l’Italia, che indicano per l’economia irregolare cifre molto più basse di quelle del presidente della Confindustria e comunque già comprese nei calcoli del Pil. Secondo l’Istat (scroll down), la quota di lavoro non regolare è passata fra il 1992 e il 1998 dal 13,4 al 15,1% della quantità di lavoro totale utilizzata dal sistema produttivo nazionale. Le cifre sono purtroppo vecchie (dovrebbero essere aggiornate nei prossimi giorni), però è difficile pensare che il sommerso sia “esploso” negli ultimi tre anni. Ricordiamo del resto che l’Italia aveva già rivalutato del 18% la sua contabilità nazionale nel 1987 proprio per tenere conto dell’economia sommersa: una scelta coraggiosa, che all’epoca fu considerata frutto della “volontà di potenza” dell’allora premier Bettino Craxi, ma che in realtà rispecchiava una metodologia seguita poi anche dagli statistici dagli altri paesi europei.
Il Pil, insomma, è un calcolo a tavolino che già comprende il sommerso. Schneider, invece, “corregge” i dati sulla base di questo ragionamento: l’economia sommersa ha bisogno di denaro contante, quindi la quantità di banconote in circolazione consente di quantificare l’economia nera. E’ una tesi suggestiva, che ignora aspetti di costume, come il diverso utilizzo delle carte di credito o degli assegni nei diversi paesi, ma che può fornire una qualche indicazione qualitativa. Invece Schneider e i suoi seguaci ne fanno discendere un preciso calcolo quantitativo: gli ultimi aggiornamenti dei dati di Schneider, diffusi sul sito di Francesco Paolo Forti, stimano per l’Italia un’economia sommersa in crescita, pari a un 28,5% nel 2000 che andrebbe aggiunta al calcolo ufficiale del Pil.
Da parte sua la Commissione europea, in una comunicazione sul lavoro sommerso del 1998, seppure in termini molto problematici, ipotizza che il sommerso in Italia possa essere “più del 20%”. Ma non parla certo del 30. Non solo: lo studio della Commissione afferma che “gran parte del lavoro nero è effettuato da persone che lavorano anche nell’economia formale se tutto il lavoro sommerso dovesse passare all’economia formale, non è quindi chiaro di quanto aumenterebbe il Pil”. In altre parole, per Bruxelles (come del resto per il Censis), il sommerso contemporaneo italiano è un “sommerso di lavoro” e non un “sommerso d’impresa”. Per spiegarsi: è composto dal fatturato di tante imprese già emerse che fanno lavorare i loro dipendenti anche in nero e non invece da imprese totalmente sconosciute al fisco e alla statistica: un fenomeno che forse può essere una realtà in certe zone della Campania o della Puglia, ma che non ha dimensioni tali da sconvolgere la contabilità nazionale.
Alla fine, insomma, quel 30% si basa soltanto su Schneider. E i calcoli di Schneider sono in realtà un fantasma che da anni si aggira nella statistica europea. Fabrizio Galimberti, uno tra i più autorevoli commentatori economici del Sole 24 Ore, li aveva criticati in un articolo di sabato 28 agosto 2000: una stima basata sulla domanda di circolante è rozza è inattendibile e Schneider mostra di ignorare che l’economia sommersa è già da anni inclusa nei calcoli della contabilità nazionale dei principali paesi. E Galimberti aveva invocato la “prova del nove”: se la scuola di Linz avesse ragione, il Pil pro capite italiano, espresso in parità di potere d’acquisto, sarebbe superiore a quello della Svezia, della Germania, dell’Austria
Ci sembra, in conclusione, che il ricorso a statistiche gonfiate sia stato soltanto un cattivo espediente retorico per drammatizzare un problema che esiste, ma sul quale le ricette del presidente della Confindustria sono state finora accolte con generale scetticismo.
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