Dall’ ascolto del territorio alla capacità di valutare chi è in grado di investire sull’ innovazione, di fare rete.
Nel gergo del business si chiama «merito di credito» e non vuole dir altro che avere la capacità di selezionare quali aziende sia giusto finanziare e quali invece è meglio di no. Sennonché con lo scoppio della Grande crisi anche il merito di credito è stato terremotato, non è più quello di una volta. Non basta operare nel settore merceologico giusto o essere insediati nei mercati felici di un tempo, oggi le variabili per una strategia vincente sono diventate molte di più. Ha fatto bene, dunque, il governatore Ignazio Visco nel suo discorso di Parma a mettere l’ accento sul merito di credito e di fatto a consentire a noi tutti di rivolgere alle banche una domanda che può suonare impertinente: pensate di essere veramente attrezzate a selezionare le aziende meritevoli o vi affidate ancora a criteri puramente quantitativi? In passato la relazione tra il credito e il territorio era quasi automatica, spesso il direttore di filiale abitava fisicamente sopra il suo ufficio. Poi c’ è stata la stagione delle aggregazioni degli istituti bancari, operazione giudicata necessaria per dotare il Paese di almeno un paio di player di taglia continentale ma che – tesi esposta Corrado Passera quando faceva il banchiere e non il ministro – ha sottoposto i gruppi dirigenti periferici a un tourbillon esasperato, a continui cambi di sede. Risultato: i direttori non conoscono più le imprese e i territori in cui operano e così quando devono emettere le loro sentenze ricorrono alle tavole di Basilea 2, le regole definite in sede internazionale, e alla religione del rating. Le associazioni delle piccole imprese obiettano poi che il pensiero unico creditizio alla fine non si è rivelato nemmeno coerente perché ha finito per contemplare troppe eccezioni. Tutte a favore di alcuni clienti, forti di relazioni consolidate e troppo-grandi-per-fallire. Del resto c’ è stata una stagione del business italiano nella quale persino i Ricucci, gli Statuto e i Coppola hanno trovato orecchie attente, figuriamoci i gruppi più blasonati. A questo punto però più che guardare all’ indietro bisogna ripartire. Di finanziamenti da distribuire ce ne sono meno di prima e la meritocrazia non è un optional. Diventa una condizione imprescindibile per poter spendere meno ma meglio, per ridurre il rischio. Come fare? Le grandi banche hanno messo in piedi vari strumenti di analisi e monitoraggio del made in Italy e dei territori, tutto questo lavoro però non è ancora sceso giù per i rami fino in filiale. Non si è tradotto in una reale maggiore capacità di ascolto delle imprese e dei distretti. In diverse assemblee mi è capitato di proporre la creazione di piccole task force del credito capaci di insediarsi sul territorio, di ricevere gli artigiani e i piccoli industriali e di fare anche della buona pedagogia d’ impresa. Le Pmi in quest’ epoca di grandi discontinuità non possono continuare a riversare tutte le loro attese nel rapporto con il commercialista di fiducia (come avviene ancor oggi secondo una recente ricerca di Roberto Weber), ma dovrebbero trovare in banca chi li aiuta a stendere un business plan, a mixare la presenza sul mercato interno con un po’ di export, a capire le potenzialità del mettersi in rete/dell’ aggregarsi e magari chi li spinge anche a programmare la staffetta generazionale. Alla fine di questo dialogo serrato non c’ è il semaforo verde per tutti ma una meritocrazia che potremmo definire intelligente. Lo strumento del rating non va in soffitta ma evolve e il credito premia i comportamenti innovativi. Come la voglia di investire, la capacità di creare una rete, l’ assunzione di un manager o anche la denuncia delle infiltrazioni mafiose. E se fossero queste le vere banche di sistema?
Ecco due o tre strade (possibili) per scegliere le aziende meritevoli
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