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E ora Marchionne costringe Cgil e Confindustria al “gioco dell’oca”

Sergio Marchionne non ha resistito alla tentazione di mettere a confronto l’accoglienza che la “sua” Fiat riceve abitualmentenegli Usa con la freddezza (usiamo pure un eufemismo per carità di patria) che le viene riservata in Italia. Tutto ciò quando i successi (finanziari e produttivi) conseguiti dal gruppo sull’altra sponda dell’Atlantico non sono per nulla in contrasto con un adeguato sviluppo degli stabilimenti italiani, non solo perché il management e la famiglia continuano a promettere che il “cuore” resterà al Lingotto, ma soprattutto perché le migliori garanzie per il progetto Fabbrica Italia poggiano sulla solidità e l’affermazione di un gruppo che ha sempre più una dimensione e una vocazione multinazionali.
È veramente stupida la rivendicazione di quanti vorrebbero che la Fiat auto (una volta intervenuta la divisione delle attività) rivestisse più marcatamente i colori nazionali, quando è proprio la sfida – per ora vittoriosa – sui mercati internazionali a dare una speranza per il futuro anche agli stabilimenti della Penisola. Intanto, l’ad italo-canadese sta facendo l’inventario dei problemi che lo assillano.
Nei giorni scorsi si è riproposto il problema dell’adesione alla Federmeccanica e alla Confindustria. Marchionne, ancora una volta, non ha usato diplomazie: gli interessi della Fiat hanno la priorità rispetto alle tradizioni associative.“È tutto lì il problema – aveva detto mesi or sono -. Noi non siamo più disposti a essere vincolati da regole inadeguate. Pertanto l’uscita dalla Confindustria rimane una ipotesi possibile”. Ma anche per Marchionne non sempre al dire segue il fare.
Del resto, come ha subito ricordato Alberto Bombassei, vicepresidente incaricato di gestire le relazioni industriali, la linea Fiat non è più incompatibile con quella della Confindustria, la quale nell’ultima Assemblea della presidenza Marcegaglia, ha fatto propria la politica dei “due forni”: le aziende che vorranno derogare al contratto nazionale tramite un negoziato a livello aziendale saranno libere di farlo e, in tal senso, dovrà pronunciarsi la riforma della struttura della contrattazione che l’associazione di viale dell’Astronomia proporrà alle organizzazioni sindacali. Ma sarà sufficiente per Marchionne l’ottimismo della volontà di un gruppo dirigente confindustriale che teme di infilarsi – se la Fiat confermerà le proprie intenzioni – in una crisi di rappresentanza dall’esito incerto?
Al dunque i problemi sono sempre gli stessi. Le riforme si possono fare soltanto mettendosi contro la Cgil. È vero, Susanna Camusso si è sforzata di mettere insieme una proposta non totalmente sorda alle esigenze delle imprese, ma i vincoli interni sono stati tanto pressanti che ne è uscito un progetto sostanzialmente inagibile. Così la Confindustria, nel grande “gioco dell’oca” del futuro delle relazioni industriali, torna alla casella di partenza, da cui ripartiranno, con i loro programmi, i candidati nella corsa persuccedere a Emma Marcegaglia. Prevarrà un ritorno alla strategia del quadriennio di Luca Cordero di Montezemolo all’insegna del “nulla senza la Cgil” oppure troverà conferma la scelta della“piattaforma riformista”, anche a costo di moltiplicare gli accordi separati, secondo la linea di condotta che caratterizzò l’avvio dell’attuale presidenza?
Il fatto è che tali orientamenti di fondo vanno presi tenendo conto del contesto generale in cui si muovono i rapporti sociali. Il quadro politico viene prima di tutto. Se davvero fossimo alla fine del berlusconiano e la sinistra sul punto di ritornare al potere, non solo diventerebbe ancor più insostenibile una linea di emarginazione della Cgil, perchè sarebbe tale confederazione a condizionare e a orientare i comportamenti del Governo.
Anche senza immaginare una svolta siffatta, gli ostacoli frapposti lungo il cammino di una prospettiva di innovazione vengono da altre parti: dalla magistratura prima di tutto. La “via giudiziaria”, intrapresa dalla Fiom, paga. Fino adesso i giudici che si sono pronunciati – sui ricorsi ex articolo 28 dello Statuto dei lavoratori -hanno rimesso in gioco il contratto nazionale del 2008 (sottoscritto da tutte le sigle e privo dei contenuti innovatori che, tra l’altro, servono alla Fiat) a fianco di quello (separato) del 2009. Ma sono attesi i giudizi sull’ammissibilità della newco, che è il cuore del progetto del Lingotto.
Non è escluso che l’establishment politico-mediatico-giudiziario italiano abbia la meglio e che ancora una volta siprecluda ogni possibilità di cambiamento in nome di una cultura dei diritti incapace di riposizionarsi all’interno delle trasformazioni economiche e sociali. Vuol dire che assisteremo a un nuovo tipo di immigrazione. All’inizio e per tutta la prima metà del secolo scorso lasciarono un Paese, incapace di mettere in discussione i privilegi di classe, milioni di lavoratori. Oggi saranno le aziende ad andare altrove alla ricerca di un contesto in cui possano vivere e prosperare. E se a dare l’esempio fosse propriola Fiat, chi scaglierebbe la prima pietra?

Fonte: Sussidiario.net del 6 giugno 2011

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