• venerdì , 1 Novembre 2024

“Dragi parli da tedesco. Ma agisca da americano”

Ferguson: per Merkel è il momento di mostrare coraggio.Negli Stati Uniti «L’ America sarà l’ ultima a essere colpita. Ma ha troppo debito».Il conto da saldare «La Germania non vuole pagare per una crisi di cui non crede di aver colpa»
«Sound German but act American: spero che Mario Draghi mostri un volto tedesco nel rassicurare e promettere stabilità, ma agisca con pragmatismo e audacia americani nel fronteggiare una minaccia ormai mortale per l’ euro. L’ Efsf, il fondo salva-Stati, è nato morto. Solo la Banca centrale europea può farcela». Niall Ferguson, lo storico britannico che insegna ad Harvard e alla London School of Economics, in questi giorni schizza come la pallina di un flipper tra convegni, studi televisivi, lezioni in ateneo, conferenze alla Banca Mondiale e nei «think tank» di Washington. Il suo ultimo saggio «Civilization: the West and the Rest» è appena stato pubblicato negli Stati Uniti e lui gira il Paese per spiegare il suo monito all’ Occidente: «Attenti: quello del declino graduale delle civiltà è un mito. La storia dimostra che la decadenza degli imperi – dai romani ai maya alla dinastia Ming – a un certo punto si è trasformata in crollo precipitoso. Quelle civiltà sono state, in realtà, spazzate via da un collasso maturato in pochissimi anni. Roma col sacco dei Visigoti del 410. Non è inevitabile, ma non è detto che non accada anche a noi. L’ Occidente potrebbe essere vicino a quel momento». In questi giorni, però, vengono ascoltati con attenzione soprattutto i suoi giudizi sulla crisi dell’ euro da lui giudicata inevitabile già dieci anni fa in «The Cash Nexus», un saggio nel quale descriveva l’ insostenibilità del meccanismo sul quale era stata costruita l’ unione monetaria. Incontro Ferguson ad Harvard a margine di un seminario organizzato dal Centro Studi Europei e dall’ Istituto Italiano di Cultura di New York durante il quale la sua visione di una Bce che dovrà necessariamente seguire le orme della Fed sulla strada del «quantitative easing» (acquistando volumi imponenti di titoli dei Paesi in difficoltà) è stata contestata dall’ economista Hans-Helmut Kotz: un docente di Harvard con un passato di membro del board della Bundesbank, la banca centrale tedesca. Kotz sostiene che, a parte le riserve politiche, leggi e trattati non consentono alla Bce di adottare misure analoghe a quelle con le quali la Fed ha salvato tre anni fa il sistema finanziario Usa. Se si muovessero in quella direzione, i banchieri centrali europei commetterebbero reati gravi. «I tedeschi non vogliono pagare per una crisi che percepisco come provocata da altri. Ma anche loro, benché più virtuosi, sono corresponsabili della situazione che si è creata. Comunque, al punto in cui sono le cose, non c’ è scelta. Solo la Bce può evitare il disastro. Ed è in grado di farlo in relativa sicurezza perché, a differenza della Fed e della Bank of England, fin qui ha dilatato abbastanza poco il suo bilancio: ha i margini per effettuare massicci acquisti di titoli». I cambi di governo in Europa, i tecnocrati al potere nei Paesi in difficoltà non dovrebbero rassicurare i mercati? O teme che alla lunga possa emergere un problema di legittimità dei leader non eletti? Nel suo libro sulle civiltà lei mette anche la perdita di legittimità dei governi tra le cause dei collassi. «Conosco bene Mario Monti, ho enorme rispetto per lui e so che è il primo a rendersi conto di avere davanti una montagna da scalare: il governo tecnocratico non è di per sé la soluzione. Avrà davanti lo stesso problema di convincere i cittadini ad accettare scelte impopolari che i politici non sono riusciti ad affrontare. Legittimità? Certo, ci sono rischi. Ma il problema più drammatico dell’ Italia era quello della perdita di credibilità del governo Berlusconi, più all’ estero che in Italia. I mercati, ma anche i partner e le istituzioni internazionali, si ritraevano davanti a una situazione che aveva caratteri da “opera buffa”. Ora è stato scelto un premier che, a differenza di Berlusconi, gode di grande credibilità internazionale. Cosa che lo aiuterà molto in tutti i negoziati, a partire da quelli col Fondo Monetario. Ma il quadro è complesso, siamo in una situazione estrema. Monti è una condizione necessaria ma non sufficiente. Senza l’ aiuto della Bce di Draghi non ce la farà neanche lui». Il «no» dei tedeschi rimane fermo. Da storico pensa che sia possibile una dissoluzione dell’ Europa senza effetti catastrofici? Lei ha scritto che 500 anni fa la frammentazione fu il vantaggio dell’ Europa sulla Cina. «È vero, dal Cinquecento in poi la competizione tra Stati ha alimentato l’ innovazione e l’ espansione dell’ Europa verso i nuovi mondi mente il monolitico impero cinese era molto meno dinamico. Convincersi, come hanno fatto gli europei, che la divisione in una pluralità di Stati fosse di per sé un elemento di debolezza, è stato un errore. Da un punto di vista storico-politico si può anche pensare di tornare indietro. Ma la rinuncia all’ euro avrebbe un costo economico e sociale enorme. A differenza di Nouriel Roubini e Martin Wolf e di catastrofisti che dieci anni fa erano grandi fan dell’ euro, non credo che, nonostante la situazione estrema che si è creata, la moneta unica farà naufragio. Il costo di uno smantellamento dell’ eurozona sarebbe imponente per tutti e non è chiaro a chi andrebbero gli eventuali benefici di questo processo». E il «no» della Germania? «Che la situazione sia questa lo sanno bene anche i tedeschi. E la Merkel mi pare consapevole che non sarà, comunque, rieletta. Alla Bce, Draghi deve trovare un modo di iniettare liquidità nel mercato obbligazionario senza violare formalmente le regole che sono così care alla Germania. Non dico che le regole non siano importanti. Ma c’ è un momento nel quale devi scegliere: se ti trinceri dietro il rispetto formale delle norme, rischi di trovarti tra le mani un cumulo di macerie. Anche Bernanke, il capo della Fed, tre anni fa ha dovuto forzare le regole. Trovare una soluzione a questo rebus dovrebbe essere una sfida stimolante per un uomo che ha lavorato anche in Goldman Sachs. E non dimentichiamo che perfino in Germania c’ è una tradizione di finanza creativa. Se Hjalmar Schacht, il presidente della Reichsbank negli anni Venti e Trenta del secolo scorso fosse ancora tra noi, sono sicuro che escogiterebbe qualcosa per consentire un massiccio intervento della Bce nel mercato dei titoli». Crede davvero che gli Usa in futuro finiranno per trovarsi nelle condizioni attuali dell’ Italia, come ha scritto di recente su «Newsweek»? «Gli Stati Uniti saranno probabilmente l’ ultimo Paese a finire nel gorgo, ma questo non significa che i loro conti siano migliori di quelli dell’ Italia. Certo, l’ America ha il vantaggio del dollaro, che è la valuta di riserva internazionale, ma l’ aritmetica fiscale del Paese è davvero brutta. Non è solo il rapporto debito-Pil. Ci sono elementi critici come la quantità di gettito fiscale assorbita dal pagamento degli interessi sul debito. Se non si cambia rotta, passeremo in meno di vent’ anni dal 10 al 30 per cento. Ci sono capitoli di spesa come il Medicare destinati ad esplodere con effetti disastrosi e un impianto tributario che è strutturalmente insufficiente. Non è un’ idea mia per polemizzare con Krugman sulla sostenibilità di nuovi programmi di spesa pubblica: l’ Ocse e la Banca dei Regolamenti Internazionali spiegano da almeno due anni che senza interventi drastici la situazione fiscale degli Stati Uniti tra breve sarà peggiore di quella dell’ Italia che i suoi passi avanti sulla strada del risanamento li ha fatti. Prima o poi anche Washington rischierà il fenomeno europeo: perdita di credibilità, aumento del costo dell’ indebitamento, spirale mortale dei tassi crescenti che vanificano gli sforzi di contenimento del deficit».

Fonte: Corriere della Sera del 21 novembre 2011

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