di Bruno Costi
Un vecchio aforisma del pensiero anarco-liberista, ricordato spesso da Indro Montanelli, recita che il modo migliore di governare l’Italia è di lasciare che nessuno la governi, perchè chiunque ci provi fa peggio di come andrebbe senza governo.
Naturalmente era una provocazione ma una sua paradossale conferma è avvenuta con la rielezione di Sergio Mattarella alla carica di Presidente della Repubblica, dopo i tentativi della politica , tutti falliti, di governare il processo di selezione di un nome condiviso che non fosse il suo.
Il fallimento di qualsiasi scelta diversa ha infatti condotto forse alla migliore scelta. Avere Mattarella al Quirinale per altri sette anni e Draghi a Palazzo Chigi, almeno fino alla fine della legislatura, ha molti vantaggi, come del resto i mercati finanziari e le Cancellerie di mezzo mondo hanno subito testimoniato nelle 48 ore successive all’elezione.
Ha il vantaggio di tenere ancorata l’Italia al quadro di alleanze occidentali che costituiscono il dna del Paese; ed ha il vantaggio di assicurare all’Italia la credibilità politica, tecnica e internazionale di cui gode il suo presidente del Consiglio proprio mentre il Paese deve completare le riforme (fisco giustizia, pubblica amministrazione, concorrenza) dalle quali dipende il consolidamento nel tempo del ritmo galoppante di crescita dell’economica che abbiamo vissuto nel 2021.
I rischi che possono azzerare i vantaggi
Ma attenzione: ci sono alcuni seri rischi che potrebbero azzerare questi evidenti vantaggi.
Quali? Per rispondere a questa prima domanda occorre prima dare risposta alla seguente seconda domanda: il nuovo quadro politico, nel quale la Lega di Matteo Salvini esce lacerata e perdente esattamente come il Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte, rafforza o indebolisce il Governo e di conseguenza la sua capacità di affrontare efficacemente le riforme che accompagnano l’erogazione delle tranche dei finanziamenti europei?
Probabilmente sbaglia chi pensa che l’indebolimento delle due principali leadership dei partiti di maggioranza corrisponda ad un rafforzamento automatico del Presidente del Consiglio. Potrebbe accadere, certo, ma dipende da ciò che Draghi avrà il coraggio di realizzare d’ora in avanti sul terreno delle riforme sulle quali Lega e Cinque Stelle lo hanno più frenato: fisco e concorrenza prima di tutte, solo per occuparsi del perimetro dell’economia.
L’esempio della riforma del catasto
Prendiamo per esempio la riforma fiscale. Al di là del modesto effetto redistributivo ottenuto con la rimodulazione delle aliquote irpef, nessun passo avanti effettivo è stato compiuto per la revisione dei valori immobiliari iscritti in Catasto, questione che, come si sa, consente a immobili di grande pregio, soprattutto nelle grandi città, di pagare imposte su valori catastati risibili per il mancato aggiornamento di questi valori.
Ma c’è di più: secondo la fotografia fatta dal Ministero dell’economia e dall’Agenzia delle entrate nell’ indagine “Ricchezza, reddito e fiscalità immobiliare” , le abitazioni in Italia sono 34,9 milioni di cui 32,2 intestate a persone fisiche e 19,5 milioni sono prima casa. Tuttavia, la stessa foto fatta guardando alle dichiarazioni dei redditi mette in evidenza che ci sono 2 milioni di case censite al Catasto ma nascoste nelle dichiarazioni dei redditi, che generano un’evasione fiscale Imu di 5 miliardi di euro.
Il Governo avrebbe voluto mettere mano a questa evidente stortura che provoca inaccettabili disuguaglianze e privilegi, ma quando in Consiglio dei Ministri arrivò il momento delle decisioni, Draghi dovette piegarsi agli ultimatum della Lega e accontentarsi di poter effettuare un semplice studio sulla situazione in essere, per illustrare ciò che il Governo sa già da anni.
La concorrenza ed il “regalo” delle concessioni demaniali
Un altro esempio è il provvedimento di legge che avrebbe dovuto introdurre la concorrenza in alcuni settori protetti che producono enormi ammanchi nelle entrate statali e oneri e inefficienze evitabili a carico dei cittadini.
Nel caso delle concessioni demaniali per esempio, una recente indagine della Corte dei Conti sul periodo 2016-2020 (“La gestione delle entrate derivanti dai beni demaniali marittimi”) ha messo in luce che lo Stato “affitta” ai privati, (prevalentemente gestori di stabilimenti balneari o di porticcioli turistici), interi tratti di spiagge o coste per 100 milioni di euro che però rendono ai concessionari 15 miliardi, ovvero 150 mila volte di più.
Benchè gli investimenti restino tuti a carico dei concessionari, forse , come dice anche la Corte dei Conti, ciò che incassa lo Stato è davvero un po’ poco. Bene, anche in questo caso due partiti, Lega e Movimento Cinque Stelle, – si era nel 2020 e governava Giuseppe Conte – hanno sbarrato la strada a qualsiasi adeguamento, arrivando addirittura a prorogare le concessioni scadute nel 2020 niente meno che fino al 2033: chi pagherà per 13 anni di mancati incassi da parte dello Stato?.
Non da meno è il fuoco di sbarramento sulla liberalizzazione dei servizi resi dalle aziende municipalizzate, (gestione dell’elettricità, di acqua e gas svolti dalle aziende di proprietà dei Comuni). Anche in questo caso il servizio reso in monopolio dalle aziende municipalizzate potrebbe essere svolto dai privati in un regime di concorrenza e gravare meno le casse comunali, con un costo inferiore dei servizi all’utente. In questo caso sono il Pd e Leu i principali oppositori alla concorrenza.
Su questi fronti la capacità di incidere del Governo è stata nulla ed il fatto che nemmeno Draghi sia stato in grado di vincere le resistenze la dice lunga sulla forza degli interessi protetti dai partiti citati.
Governo più debole o più forte?
Torniamo dunque alla domanda iniziale: ora che Draghi sa di restare a Palazzo Chigi fino al 2023 godendo del sostegno al Quirinale dello stesso presidente che lo ha incaricato, c’è un solo modo per capire se la debolezza dei partiti lo rende più forte: decidere e varare le riforme che quegli stessi partiti gli hanno finora impedito di realizzare.
Ma tenga conto che ha molto meno tempo di quanto ne manca alla fine della legislatura del 2023. Nella tarda primavera si torna a votare per eleggere i sindaci in mille comuni e 23 capoluoghi di provincia fra i quali Genova, Palermo, L’Aquila, Verona. Sarà l’ultimo appello prima delle elezioni politiche del 2023 per almeno due leader: Matteo Salvini e Giuseppe Conte.
Se l’emorragia di voti che sta dissanguando i consensi dei loro rispettivi partiti proseguirà, aspettiamoci uno scenario nel quale, per salvare le rispettive leadership, potrebbero uscire dalla maggioranza e mandare il Governo in minoranza. E farlo in settembre – quando i parlamentari hanno ormai acquisito il diritto al vitalizio e la prospettiva delle elezioni anticipate non spaventa più nessuno – garantirebbe loro mani libere per una campagna elettorale nella quale si giocano il futuro.
Draghi dunque ha al massimo 6 mesi per varare riforme vere e anticipare la legge di bilancio 2023 prima che la campagna elettorale di leader politici all’ultima spiaggia conduca l’Italia ad un Vietnam dell’economia.
(www.clubeconomia.it del 5 febbraio 2022)
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