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Draghi chiede misure per crescere

Il benessere di una nazione non si misura solo con il Pil, eppure «la difficoltà dell’economia italiana di crescere e di creare reddito non deve smettere di preoccuparci» perché «ci potremmo trovare di fronte a un bivio» fra il ritorno allo sviluppo e una lunga fase di stagnazione, se non di declino, come quello che toccò in sorte al nostro Paese nella seconda metà del Seicento, quando gli italiani, pensando di rimanere ricchi per sempre, si ostinarono a comportarsi da rentier.
Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha scelto ieri l’occasione della sua Lectio magistralis in ricordo dell’economista Giorgio Fuà all’università di Ancona per lanciare un forte richiamo sulla necessità di riportare al centro del dibattito di politica economica il grave problema di crescita dell’economia italiana.
Si trattava, in una certa misura, di un tema obbligato, perché Fuà, l’economista fondatore dell’Istat scomparso nel settembre del 2000, è stato un grande studioso delle questioni dello sviluppo nei paesi industrializzati. E Draghi non si è tirato indietro. In un mondo nel quale sta cambiando rapidamente il peso specifico delle diverse aree economiche, ha affermato, la nostra economia risente più di altre di queste trasformazioni: «Essa manifesta da anni una incapacità a crescere a tassi sostenuti: l’ultima recessione ha fatto diminuire il Pil italiano di sette punti». Non basta: tra il 1998 e il 2008, cioè nei primi dieci anni di vita dell’Unione monetaria, il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è cresciuto del 24% in Italia e del 15% in Francia mentre in Germania è addirittura diminuito.
Questo gap crescente, dice Draghi, rispecchia essenzialmente un divario di produttività del lavoro: nei 10 anni è aumentata del 22% in Germania, del 18 per cento in Francia e solo del 3 in Italia. Ma cosa c’è dietro alla bassa produttività italiana? Draghi si affida a una definizione di Fuà a proposito del “modello di sviluppo tradivo” e sottolinea i molti dualismi del nostro sistema economico: da quello dimensionale delle imprese (per le imprese più piccole è sempre più difficile sfruttare le economie di scala e competere con successo nel mercato globale) al dualismo del mercato del lavoro, alla carenza di concorrenza nel mercato dei servizi.
In tema di lavoro, il Governatore ricorda che «rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata dall’Istat in circa il 12 per cento del totale delle unità di lavoro». Inoltre, spiega «le riforme attuate, diffondendo l’uso dei contratti a termine, hanno incoraggiato l’impiego del lavoro, portando ad aumentare l’occupazione negli anni precedenti la crisi, più che negli altri paesi industrializzati». C’è però un rovescio della medaglia:«Senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari – ha affermato Draghi – si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità». Il riferimento, in questo caso, è a una discussione di prospettiva, in corso fra economisti e giuristi del lavoro (ad esempio, Pietro Ichino ha ipotizzato una grande intesa tra lavoratori e imprenditori, nella quale questi ultimi rinunciano al lavoro precario in cambio di un contratto a tempo indeterminato reso più flessibile da una protezione attenuata per i licenziamenti). Ma il passaggio è stato molto apprezzato dagli esponenti sindacali, a cominciare dal neo-segretario generale della Cgil, Susanna Camusso: «Il Governatore della Banca d’Italia rimette al centro i veri problemi del paese. Il futuro dei giovani passa dal lavoro – ha detto la leader della Cgil – e i primi temi da affrontare sono quelli della stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari e della regolarizzazione dell’occupazione».
Quanto al settore terziario, Draghi ha sottolineato che «l’impegno a liberalizzare il settore dei servizi si è da tempo interrotto». La stagnazione della produttività è un problema dell’intero paese, spiega ancora il Governatore, non è solo il Sud in ritardo. «Dobbiamo ancora valutare gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva» aggiunge, chiarendo che la reazione positiva al duro shock subito non è un esito scontato. Poi ricorda, citando lo storico Carlo Maria Cipolla che c’è stato un tempo in cui, «nel giro di tre generazioni» l’Italia passò dall’essere il paese numero due del mondo avanzato a un destino di due secoli di stagnazione. Oggi gli italiani «sono mediamente ricchi, hanno un’elevata speranza di vita, sono in gran parte soddisfatti delle loro condizioni: l’inazione – afferma Draghi – è sostenibile anche per un periodo lungo; potrebbe generare un declino protratto». E conclude: «La ricchezza è il frutto di azioni e decisioni passate, il Pil, legato alla produttività, è frutto di azioni e decisioni prese guardando al futuro. Privilegiare il passato rispetto al futuro esclude dalla valutazione del benessere la visione di coloro per cui il futuro è l’unica ricchezza: i giovani».

Fonte: Il Sole 24 Ore del 6 novembre 2010

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