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Dizionario degli inganni messi a punto dagli apocalittici

Wei Ji, due ideogrammi, pericolo e opportunità. In cinese, crisi si dice così. E Canning Fox che da Hong Kong guida il colosso delle telecomunicazioni Hutchison Whampoa (in Italia gestisce “3”), spiega: “E’ come il sogno di Giuseppe nella Genesi, ma al contrario, per noi sono cominciati i sette anni di vacche grasse”. Chi sa cogliere l’occasione, cambia e si sviluppa. Nell’esausto occidente, invece, trionfa imperioso il pensiero negativo. Eppure, passando in rassegna le voci che arrivano dall’Apocalisse, si scoprono sorprendenti verità.
AMERICA. Lì tutto è cominciato e tutto lì finirà. Ma quando finirà? Non adesso. Ne è più che convinto Nouriel Roubini: “Le economie avanzate del mondo sono di fronte a una seconda recessione nel prossimo trimestre, al massimo tra due. La questione non è se ci sarà un double dip, ma se sarà lieve o grave, accompagnato da un’altra crisi finanziaria”. E’ l’11 ottobre scorso. Il dottor Catastrofe scriveva già la stessa cosa sul Financial Times del 23 agosto 2009. Allora non è successo. E adesso? Il 19 ottobre, un raggio di speranza illumina le pagine del Sole 24 Ore: “Il pericolo di una recessione, che tutti temevano a cavallo di agosto, in uno dei momenti più difficili della crisi, è stato evitato: le stime di crescita per il terzo trimestre sono positive, si parla di un tasso del 2-2,5 per cento e per il quarto trimestre si stima di nuovo un 2,5 e forse persino un 2,75 per cento di aumento dell’output economico. Risultati, va detto, un po’ anemici ma pur sempre utili a tenere l’economia ben al di sopra del livello di guardia”. Inguaribili ottimisti, siamo propensi a credere più al Sole che al principe delle tenebre.
ANZIANITA’. Negli ultimi vent’anni, sono andati in quiescenza tre milioni di lavoratori poco più che cinquantenni. Questo vuol dire che per almeno un quarto di secolo continueranno a riscuotere un assegno mensile vicino all’80 per cento dello stipendio. Allora non è vero che ci hanno tolto la pensione. Non ancora. La Germania dal 2004 ha alzato l’età a 67 anni e il grado di copertura media rispetto all’ultimo anno di retribuzione (chiamato tasso di sostituzione) s’aggira sul 50 per cento. Dunque, lasciamo il lavoro prima e molto meglio dei tedeschi. Se non vogliono pagare per mantenerci ai giardinetti, possiamo dar loro torto?
BANCHE. Ne fanno di tutti i colori con i soldi dei depositanti. Speculano in lire turche per aggirare il fisco (lo scandalo Unicredit può estendersi anche agli altri istituti di credito). Piazzano titoli derivati alle vecchiette e agli assessori comunali. Concedono mutui a chi non li può rimborsare e negano prestiti a chi ha una fabbrichetta. Poi si scopre che non sono dotate di capitali sufficienti a tenersi in piedi. Secondo Bloomberg c’è bisogno di mille miliardi di dollari su scala mondiale e non si sa dove trovarli, quindi usciranno dalle tasche dei contribuenti. Ma la ricapitalizzazione forzata è davvero la soluzione? E’ una condizione necessaria, secondo il Wall Street Journal, ma la chiave sta nell’aumentare la domanda e far ripartire l’economia, perché la crescita è l’unica medicina che funziona.
BCE. Davvero è andata ben oltre i suoi compiti, forzando i limiti del trattato? Il bilancio della Banca centrale europea dal 2008 è aumentato di 77 volte, quelli della Federal Reserve e della Bank of England di 200. Jean-Claude Trichet si è mosso solo nell’ultimo anno, tardi e timidamente, a causa delle resistenze tedesche. Americani e inglesi si sono lanciati in un nuovo programma di aumento della liquidità, la Bce no: è vero che compra titoli di stato sul mercato secondario, ma poi li sterilizza con le banche. “L’offerta di moneta è ferma”, ammette Trichet. Eppure, rischi seri e duraturi d’inflazione non se ne vedono, soprattutto se guardiamo i prezzi interni, depurati da petrolio e materie prime. Speriamo in Mario Draghi: che sia rigoroso, non rigorista.
CINGUETTIO. Twitter è arrivato anche in Borsa e ha combinato sconquassi: 140 caratteri sulla rete e il corso delle azioni cambia in un nanosecondo. “I trader di opzioni, in base ai volumi di put/call, indicano questi quattro titoli come pronti al rimbalzo” suggerisce @Kapitall; “Voci di take over per Cree sul Nasdaq. Non confermate” rivela @RANsquaw. All’inizio di agosto un cinguettio su Société Générale la dà per spacciata. Il Mail on Sunday pubblica la stessa catastrofica notizia. Le banche francesi crollano sul listino e comincia la bufera finanziaria d’estate. A metà settembre, viene ancora dal social network l’indiscrezione capace di cambiare l’umore dei mercati. Zerohedge, seguitissimo da chi lavora nella finanza, anticipa che un fondo cinese è interessato a comprare debito italiano. Anche questa notizia infondata o quanto meno inesatta.
CONFINDUSTRIA. L’uscita della Fiat ha riaperto la questione: c’è ancora bisogno di una superlobby degli industriali? Risponde Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera: “In un decennio Confindustria è cambiata, ma nel senso opposto: le cinque maggiori imprese associate oggi sono monopoli, pubblici o privati: Ferrovie, Poste, Enel, Telecom, Eni. In Confindustria comandano, ma con quale credibilità rappresentano gli interessi delle mille piccole e medie imprese che tengono in piedi questo paese? Con quale credibilità si può parlare di liberalizzazioni e privatizzazioni, dalla distribuzione di gas ed energia elettrica, alle farmacie, alle professioni?”. Gli industriali, come categoria se non come classe, hanno la coscienza pulita? Risponde Riccardo Gallo: “L’aggregato delle 1.790 società censite ha cumulato nel periodo 2000-2009 un flusso di cassa positivo di 41,518 miliardi. Una somma imponente che non è andata in investimenti. Nello stesso arco di tempo, su utili di 155,925 miliardi i dividendi sono stati 155,885: gli azionisti hanno chiesto agli amministratori di distribuire loro il 99,97 per cento degli utili”. Tagliatori di cedole, altro che imprenditori schumpeteriani. Non tutti sia chiaro (vedi alla voce industria) ma i padroni delle ferriere sì.
CRESCITA. L’Italia è ferma da almeno un decennio. La media è ineccepibile, ma menzognera, come tutte le medie. Copre ad esempio un biennio di sviluppo che aveva sorpreso tutti, tra il 2006 e il 2007. Un tasso che s’avvicinava al 2 per cento, non esaltante, ma abbastanza per creare qualche posto di lavoro in più. L’occasione è stata sprecata, ma dimostra che non esiste nessuna condanna metafisica: l’Italia sa crescere, ha le risorse in potenza, bisogna metterle in atto.
EURO. Crisi o non crisi, la moneta unica europea è ancora forte, troppo forte. Per quale motivo vale il 36 per cento più del dollaro? Una spiegazione sta nella politica monetaria (vedi alla voce Bce). La seconda nel fatto che il dollaro viene cautamente manovrato al ribasso. La terza ragione va letta negli interessi dei tedeschi. Molti di loro, tra i quali alcuni esponenti della grande industria, sostengono che sarebbe meglio tornare al marco. Ma lasciare l’euro costa molto. L’Ubs stima tra i 6 mila e gli 8 mila euro a testa nel primo anno e tra 3.500 e 4.500 negli anni successivi. Ciò equivale al 25 per cento del prodotto lordo nel primo anno. In confronto, per evitare che Grecia, Irlanda e Portogallo vadano in default tagliando almeno della metà il loro debito, ogni cittadino tedesco dovrebbe sborsare appena mille euro, una tantum. Possibile che in Germania non sappiano fare i conti?
FALLIMENTI. Le banche sono troppo grandi e soprattutto troppo intrecciate tra loro per fallire. Quanto agli stati, è mai possibile che vadano in default senza provocare sconquassi sociali ingestibili e una reazione a catena che travolge l’intero sistema internazionale? La questione è mal posta perché si possono mettere in moto strumenti che, proteggendo risparmiatori e contribuenti, consentano una bancarotta controllata. Esistono le istituzioni, ci sono le Banche centrali, c’è il Fondo monetario. Del resto, l’Unione europea ha già deciso che uno stato può dichiarare bancarotta e ha preparato gli strumenti per gestirlo in modo razionale, coinvolgendo le banche e gli investitori privati, secondo il principio che chi ha sbagliato paghi. Il meccanismo di stabilizzazione permanente è esattamente questo ed è la ragione per cui si accoppia a esso una riforma del patto in senso più severo e restrittivo. Ma tutto ciò comincerà tra due anni. E i tempi del mercato sono molto più veloci dei tempi della politica.
GRECIA. Nel maggio 2010, la Ue ha varato un prestito biennale di 110 miliardi di euro in due anni. Ora si discute se sbloccare la sesta rata di 8,1 miliardi. Ma quel pacchetto nasce con un vizio di fondo, spiega Franco Bruni, docente di Politica monetaria internazionale alla Bocconi: “L’errore fondamentale, è aver proposto una terapia troppo rapida, sottovalutando la gravità del problema. L’aggiustamento al quale i greci devono sottomettersi è indispensabile, ma è troppo violento. Lo sbaglio iniziale provoca il prolungarsi di un problema la cui dimensione è, in realtà, limitata, il debito greco è appena il 4 per cento del totale dell’area euro, però diventa il simbolo di un problema più grande”.
INDUSTRIA. Gli ordinativi dell’industria italiana hanno registrato ad agosto un aumento del cinque per cento su base congiunturale e del 10,5 a livello tendenziale. Lo rende noto l’Istat. Il fatturato, invece, è cresciuto del 4 per cento mensile e del 12 annuo. Gli ordini sono aumentati del 6,8 sul mercato interno e del 2,2 sul mercato estero. Nel confronto tendenziale, il contributo più ampio alla crescita del fatturato viene dalla componente estera dei beni intermedi. E’ vera svolta? Aspettiamo i dati di settembre, attenti a non cadere nelle illusioni statistiche. Fulvio Coltorti, capo dell’ufficio studi di Mediobanca davanti alla Società degli economisti ha messo il dito sulla difficoltà di misurare in modo corretto la realtà: “Nel caso il valore aggiunto della manifattura italiana venisse deflazionato con gli indici tedeschi, la sua variazione annua tra il 1999 e il 2007 passerebbe dallo 0,7 al 3,3 per cento; se gli indici fossero francesi, la crescita sarebbe del 4,2 per cento. La dinamica della produzione industriale italiana è soggetta a due coppie di forze contrarie: il declino delle grandi imprese fa regredire la generazione di ricchezza, mentre i distretti prima e il quarto capitalismo poi, spingono in avanti”.
LAVORO. Dal 1997 al 2007 sono stati creati tre milioni di posti di lavoro. Quanti ne ha divorati la recessione? Ci sono poco più di 400 mila lavoratori in cassa integrazione. E dal 2008 al 2010 si sarebbe perso un milione di posizioni lavorative. Poi ci sono i giovani scoraggiati o in cerca di un posto: 27,9 per cento uno dei tassi peggiori in Europa, nove punti percentuali in più rispetto al 2007. A fronte di questa caduta tra gli italiani, troviamo 400 mila nuovi occupati tra gli immigrati. Quindi, un panorama assai complesso che tiene la disoccupazione italiana al 7,9 per cento, peggio della Germania (6,9), ma molto meglio della Francia (9,9).
POVERTA’. Scrive l’Istat nel suo rapporto annuale: “La povertà in Italia risulta stabile rispetto all’anno precedente, ovvero il 2009: undici famiglie su cento sono relativamente povere e 4,6 lo sono in termini assoluti. Per una famiglia di due componenti, la soglia di povertà relativa, è pari a 992,46 euro, circa 9 euro in più rispetto alla soglia del 2009. La povertà relativa aumenta tra le famiglie di cinque o più componenti (dal 24,9 al 29,9 per cento), tra quelle con membri aggregati (dal 18,2 al 23) e con un unico genitore (dall’11,8 al 14,1)”. I giornali per lo più titolano che un italiano su quattro è povero. Precisa il direttore dell’Istat, Enrico Giovannini: “Il tasso di povertà resta stabile al 13 per cento, il rischio di povertà o esclusione è al 25, comprende famiglie che non sono povere, ma possono diventarlo”. La sua spiegazione finisce in pagina interna, in basso. Good news, no news.
RICCHEZZA. Gli italiani stanno molto meglio dei tedeschi e degli americani. Non ci credete? Leggete l’ultimo rapporto sulla ricchezza nel mondo realizzato da Credit Suisse Research. La ricchezza totale arriva alla bella cifra di 12,7 trilioni di dollari (erano 5,5 nel 2000), pari a 9,3 trilioni di euro (il debito pubblico ammonta a due trilioni). Meno di Francia (14 trilioni) e Germania (13,4). Ma pro capite l’Italia surclassa con 211 mila dollari Germania (163 mila dollari), Regno Unito (197 mila), Spagna (104 mila), Canada (190 mila), Stati Uniti (181 mila). I debiti delle famiglie sono i più bassi: 24 mila dollari, contro i 33 mila dei tedeschi, i 41 mila dei francesi, gli 88 mila degli irlandesi, i 54 mila degli inglesi, i 60 mila di canadesi e i 59 mila degli statunitensi. L’articolo era a pagina 45 del Sole 24 ore. Good news, no news.
TAGLI. Quasi trent’anni di tagli di spesa e aumento di tasse, ma il debito pubblico è diventato il terzo al mondo. Come mai? Il segreto è racchiuso in un aggettivo: tendenziale. Facciamo l’esempio che in un dato anno si spenda 100 euro e venga stimata una crescita a 130 per l’anno successivo. Troppo, dice il Tesoro, bisogna tagliare. Ma l’accetta non cade sull’ammontare storico, bensì sulla variazione tendenziale. Se si riducono venti euro, la spesa diventa 110, dunque non scende in assoluto, al contrario aumenta di dieci euro rispetto al passato. Dal Def (Documento di economia e finanza) di aprile 2011 si evince che le entrate totali, tra il 2010 ed il 2014, aumenteranno di 92,6 miliardi che andranno a contenere il deficit nel 2014 di 25,3 miliardi, riportandolo dai 71,2 miliardi del 2010 ai 45,9 miliardi del 2014. La restante parte delle maggiori entrate andrà invece a coprire aumenti di spesa corrente di 75,2 miliardi di euro con una riduzione assoluta delle spese in conto capitale di 7,9 miliardi di euro. L’aumento della spesa corrente sarà dovuto per 27,4 miliardi dall’aumento degli interessi, ma il resto, poco meno di 50 miliardi di euro, ad aumenti di spesa corrente primaria. E dove sono allora, i tagli? Mistero italiano.
TASSE. La pressione fiscale sul reddito nazionale sale dal 42,5 al 44,8 per cento, di qui al 2014, perché per raggiungere il pareggio del bilancio, per due terzi la manovra è composta da tributi. Mentre prende quota l’idea di una patrimoniale straordinaria per abbattere il debito. Fino a che punto può essere efficace e di quanto ridurrebbe il patrimonio degli italiani? Guido Tabellini, rettore della Bocconi, spiega: “Secondo le stime di Banca d’Italia, nel 2009 la ricchezza più liquida (titoli di stato e non, azioni quotate e fondi comuni di investimento) ammontava a circa 1.000 miliardi, il 68 per cento del reddito nazionale. Non è poco, ma anche applicando un’aliquota media del 30, il debito pubblico scenderebbe dal 120 al 100 per cento del pil. A queste forme di ricchezza si aggiungono i depositi bancari (650 miliardi), le azioni e partecipazioni in società non quotate (500 miliardi), e gli immobili residenziali posseduti dalle famiglie (il cui valore catastale è di circa 1.300 miliardi escludendo le prime case). Ma queste voci sono illiquide (immobili e partecipazioni) o servono a finanziare i consumi quotidiani (depositi). Anche immaginando un’aliquota media di dieci punti, si raccoglierebbero altri 240 miliardi, pari a circa il 15 per cento del pil. Insomma, per quanto aggressivo, un prelievo straordinario sulla ricchezza non potrebbe abbattere il debito molto sotto il 90 per cento del pil”. Una quota che deprime la crescita di circa un punto, secondo Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, e supera di trenta punti il limite di Maastricht. Mentre l’effetto devastante su reddito e patrimoni, farebbe crollare il prodotto lordo. Chi conosce altre scorciatoie si faccia avanti. Intanto, non resta che tornare dalle tasse ai tagli, quelli veri non quelli all’italiana. Usando il “tesoretto” per rilanciare l’economia.

Fonte: Foglio.it del 24 ottobre 2011

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