• venerdì , 22 Novembre 2024

Dipendenti statali, da “fannulloni” a “protetti”

La polemica sulla riforma del mercato del lavoro s’è avvitata – intorno alla semi-abortita abolizione dell’articolo 18 sul reintegro dei licenziati – in modo così stupidamente convulso da oscurare alcuni aspetti collaterali di non piccola gravità. Tra i quali l’assurda esclusione dei dipendenti pubblici dal novero di quelli ai quali si applicherà la riforma, quando e come la licenzieranno le Camere. Un trattamento asimmetrico insomma, privo – com’è ovvio – di qualunque legittimazione giuridica, oltre che morale, e anzi ai confini dell’incostituzionalità. Ma tant’è: la riforma non tocca gli statali.
Qualche giorno fa il presidente del Consiglio Mario Monti, pur elogiando con parole vibrate il ruolo dei dipendenti pubblici – con riferimento particolare a quelli dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia, oggi particolarmente esposti alla rabbia popolare -, ha vagamente alluso alla possibilità che debbano sostenere nuovi sacrifici. Sempre nei giorni scorsi, la Corte dei conti ha fatto sapere che ogni dipendente pubblico costa quasi 2.900 euro all’anno a ogni cittadino, per la precisione 2.849 euro, poco più di quanto costano i dipendenti tedeschi. Ma non ne condividono la produttività.
Cosa si addensa sul loro capo? C’è da scommetterlo: una stagione dolorosa, ma stupidamente inefficace. Per una ragione molto semplice: perché il governo “non potrà non fare” contro di loro qualche provvedimento esemplare, che si rivelerà però improduttivo nel tempo, o nascerà debole, o verrà scritto apposta per essere neutralizzabile dal Parlamento, perché la massa di consenso rappresentata dai tre milioni di dipendenti statali e dalle loro famiglie è tale per cui nessuna forza politica accetta a cuor leggero di inimicarsela: e quindi più che di un effetto-lobby è giusto parlare di un effetto-urna.
Ma c’è anche un’altra ragione: la spesa pubblica andrebbe sì, ridimensionata, ma soltanto utilizzando su vasta scala le aste on-line della Consip, che permetterebbero di risparmiare il 20% circa sui 90 miliardi di euro di acquisti per beni e servizi effettuati dalle pubbliche amministrazioni senza passare per Internet, 18 miliardi di euro all’anno in meno, una manovra economica; invece, tagliare gli organici pubblici, e quindi il costo del lavoro, ha un effetto contabile tutto da valutare e probabilmente nocivo perché comporta, come minimo, lunghi ricorsi agli ammortizzatori sociali e un effetto prociclico disastroso, com’è accaduto in Grecia, che soprattutto in certe regioni si tradurrebbe immediatamente in una vera caduta recessiva.
E dunque? Dunque la riforma efficientista della Pubblica amministrazione avrebbe dovuto essere graduale e rigorosa, ma nel recuperare efficienza, prima che nel tagliare, e anzi tagliando solo attraverso la logica “morbida” del blocco del turn-over. Nulla di tutto questo: Renato Brunetta aveva iniziato un ciclo nuovo di gestione severa, con la sua campagna contro le false malattie che qualche risultato produsse, ma nel ventre molle delle amministrazioni la sua azione non fece in tempo ad arrivare.
Colpa delle eccessive tutele sindacali, delle cattiva qualità di troppa dirigenza, dell’insufficiente informatizzazione: più di tanto, insomma, gli statali oggi non possono e non sanno rendere. A tagliarne le teste si rischia solo la rivolta sociale e l’aggravio recessivo. Detto questo, però, che si abbia almeno il pudore di equipararne il trattamento e le garanzie a quelli dei lavoratori privati. Perché altrimenti l’iniquità sarebbe insostenibile.

Fonte: Sussidiario.net del 18 maggio 2012

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