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Dietro il no Europeo alla fusione tra GE e Honeywell

Come previsto, il 3 luglio la Commissione europea ha vietato la fusione tra General Electric (GE) e Honeywell, che era invece stata approvata dall’autorità anti-trust americana. La decisione solleva questioni rilevanti sulla politica europea di concorrenza; se non si affrontano, c’è il rischio di una reazione di rigetto contro quella che è stata la politica europea di maggior successo negli anni novanta.

Non è obiezione seria il difetto di giurisdizione: l’anno scorso le autorità americane avevano vietato la fusione tutta europea tra Air Liquide e Air Products, approvata dall’Unione. Non lo è neanche l’accusa di usare la politica di concorrenza a difesa dell’industria europea: l’impossibilità di piegare il Commissario Monti a usi impropri è universalmente riconosciuta. E’ anche possibile che GE abbia deciso di abbandonare le trattative perché nel frattempo l’affare era divenuto meno conveniente, usando la Commissione come buon pretesto.

Le critiche serie all’approccio della Merger Task Force della Commissione sono due. La prima: i suoi argomenti economici appaiono scarsamente fondati. Le obiezioni a una concentrazione dovrebbero basarsi sull’analisi dei suoi effetti diretti in termini di aumento dei prezzi e danno ai consumatori. Invece, con le teorie dell’impatto anticoncorrenziale dell’offerta di una vasta gamma di prodotti, applicata in questo caso, e della dominanza collettiva, la Merger Task Force si spinge sempre più lontano sul terreno degli effetti indiretti, i quali sono difficili da dimostrare e implicano una discrezionalità troppo larga nelle valutazioni dei funzionari. Il pregiudizio di fondo contro le concentrazioni non è giustificabile.

La seconda: il negoziato dei cosiddetti “rimedi” – le misure imposte dalla Commissione per approvare la concentrazione – attribuisce all’autorità amministrativa comunitaria poteri di intervento in materia di interessi economici e diritti delle parti e di soggetti terzi, che sono esercitati in maniera sempre più penetrante. Vi è una tendenza crescente a disegnare a tavolino negli uffici della Commissione la mappa dei concorrenti; si scelgono non solo i rimedi per indebolire l’impresa che si concentra, ma anche chi deve contrastarla e con quali mezzi. Il fine è predeterminato, non si esita a cambiare gli argomenti nel corso del procedimento.

L’anno scorso, la Commissione ha imposto rimedi in 40 casi di concentrazione. Le imprese non sono in condizione di resistere, per la lentezza della tutela giurisdizionale (nonostante l’introduzione recente di una procedura di ricorso fast track nei casi di concentrazione): il ricorso alla Corte di Giustizia può richiedere anni. Il danno economico del divieto da parte della Commissione non è rimediabile.

Il Commissario Monti – più sensibile a questi argomenti dello scatenato Direttore della Merger Task Force, il tedesco Drautz – ha di recente fatto approvare alla Commissione un rafforzamento della figura del “consigliere-auditore”, un garante della correttezza delle procedure che ora dipenderà direttamente dal Commissario. Nonostante la personale statura del Commissario, il problema della “terzietà” del giudice, nei procedimenti di concorrenza, rispetto a chi conduce l’istruttoria resta irrisolto.

Al fondo dell’esercizio di ogni potere vi deve essere un meccanismo di legittimazione e accountability; la democrazia economica è incompatibile con l’esercizio di poteri amministrativi senza limiti.

Fonte: «Il Sole 24 Ore» del 5 luglio 2001

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