La fiction su Giuseppe Di Vittorio, nonostante qualche ingenuità narrativa tipica di quel genere televisivo, ha conosciuto grande successo di pubblico. A colpire i telespettatori, anche i più smaliziati, è stata la rievocazione dellimpegno di «responsabilità nazionale» che caratterizzò l’azione del leader Cgil negli anni della ricostruzione. A differenza di Palmiro Togliatti che alla fin fine vide nel Piano del lavoro uniniziativa eminentemente propagandistica, Di Vittorio credette sul serio alla praticabilità di una proposta alternativa alla politica economica del governo e alla conferenza di presentazione del Piano invitò non solo economisti vicini alla sinistra come Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini ma anche i ministri Pietro Campilli e Ugo La Malfa.
Respingendo qualsiasi velleità di superare il capitalismo, Di Vittorio propose al governo De Gasperi uno scambio virtuoso tra moderazione salariale e incremento dell’occupazione. Qualsiasi paragone tra gli anni dell’immediato dopoguerra e la crisi di oggi avrebbe poco costrutto ma la rievocazione del generoso riformismo dell’uomo di Cerignola conserva intatto il suo fascino. E fa il paio con le parole che un altro prestigioso esponente della sinistra riformista divenuto capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha pronunciato giovedì ricordando Marco Biagi. Lappello a non farsi condizionare dalla sindrome dell’arroccamento è uno stimolo che il sindacalismo italiano non dovrebbe disperdere. In queste settimane e giorni cresce la preoccupazione attorno ai destini di tante aziende del sistema Italia.
I cancelli delle piccole imprese chiudono e spesso la notizia non arriva nemmeno ai giornali. Medie e grandi imprese di solide tradizioni sono in difficoltà di fronte al crollo dellexport. Come ricorda il ministro Tremonti, «i fax del Nord Est non cantano più». Di fronte all’avanzare della recessione e al disagio che sta creando nelle tradizionali roccaforti della manifattura italiana, la Cgil ha dimostrato di saper tenere il campo. Mentre l’iniziativa degli altri sindacati si faceva più tenue e meno riconoscibile, la confederazione di Guglielmo Epifani si è mobilitata con maggiore continuità. Dando prova di duttilità la Cgil a Roma ha tenuto il punto della critica serrata al governo (e agli altri sindacati) ma sui luoghi di lavoro ha negoziato unitariamente ogni soluzione possibile. Ora però si avvicina la manifestazione del 4 aprile che già per la scelta del luogo del comizio finale, il Circo Massimo, ha un alto valore simbolico.
Lo spiegamento organizzativo è imponente: 24 treni speciali, 1.740 autobus e persino una nave. Meno chiara è la piattaforma. L’impressione è che si sia proceduto per accumulazione progressiva di slogan e richieste ma sia mancata (finora) la capacità di selezionare e qualificare gli obiettivi. Se tutto restasse così, la scadenza del 4 verrebbe confinata nel ghetto della propaganda, senza far tesoro della lezione di Di Vittorio e Napolitano. E la Cgil commetterebbe un errore. La credibilità dello sforzo che sta operando per rispondere alle ansie del mondo del lavoro dipende dalla praticabilità delle proposte che verranno avanzate. E da una scelta non rinviabile: Epifani dovrà dire in anticipo che su quelle proposte è disposto ad andare fino in fondo. Anche, paradossalmente, a costo di firmare un accordo con l’odiato governo Berlusconi.
Di Vittorio in campo
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