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Dentisti, la paura del tracollo. Professione dorata in declino

Il dato è impressionante: nel 2010 gli studi dentistici hanno fatto registrare 2,5 milioni di accessi in meno ovvero almeno 1,8 milioni di italiani si è dimesso da paziente. E i primi riscontri dell’anno in corso sono ancora più preoccupanti, evocano il termine «tracollo» e segnalano un ulteriore 30% in meno di visite. Secondo un’indagine promossa dall’Andi, l’associazione nazionale dei dentisti italiani, il 30% dei medici odontoiatrici sta valutando di rottamare lo studio. Un effetto automatico della Grande Crisi che ha fatto diminuire i soldi nelle tasche degli italiani? No, secondo la dirigenza Andi, c’è di più: due anni di recessione hanno ridotto i ricavi ma soprattutto hanno scavato in profondità e hanno determinato quello che viene considerato il declino di un modello professionale che aveva fatto dei dentisti italiani la serie A del ceto medio. E siccome il calo di accessi è più ampio nelle aree del Paese a maggiore industrializzazione (soprattutto nel triangolo Bergamo-Brescia-Milano) la conclusione che se ne trae è che in qualche maniera i dentisti stiano pagando la selettività nella spesa da parte di operai, impiegati e altre categorie del settore privato. Questa valutazione è confermata dal fatto che i ricavi hanno tenuto invece a Roma e nei capoluoghi dove prevalgono le attività della pubblica amministrazione. Un caso a sé è rappresentato, poi, dalle zone frontaliere per l’impatto sul mercato dell’offerta di odontoiatria low cost d’oltre confine.
«Bisogna prendere atto – dice Roberto Callioni, ex presidente Andi e ora responsabile del Servizio Studi – che la mutazione professionale in atto è vissuta con maggiore sofferenza dai dentisti meno giovani, più legati quindi alle consuetudini. Invece i trentenni che si approcciano alla professione solo ora e non hanno vissuto l’età dell’oro si adeguano con maggiore facilità e duttilità alla nuova turbolenza del mercato». Insomma quelli a maggior rischio (psicologico) sembrano essere i cinquantenni, dentisti professionalmente maturi ma ancora giovani per poter aspirare a una pensione, costretti a rinunciare al tenore di vita precedente e troppo in là per poter tornare sui loro passi.
In verità di fronte agli effetti della crisi non tutti gli odontoiatri sono rimasti con le mani in mano, in tanti hanno provato a mettere in atto strategie di contenimento. Il 63,9% si è posto un problema di maggiore efficienza degli studi, il 54% ha investito sull’aggiornamento professionale mostrando quindi lungimiranza, il 43,6% ha semplicemente attuato una politica di contenimento delle spese e il 35% invece ha deciso di aggregarsi, di ricercare una collaborazione con altri studi o un’associazione con altri singoli dentisti, infine il 32% ha investito nello studio per aumentare la gamma delle cure praticate alla clientela. Solo il 17,4% ha pensato di affrontare la congiuntura negativa rivedendo al ribasso le tariffe e un altro 16% ha varcato il confine tra privato e pubblico (un vero tabù!) e ha ricercato collaborazioni con l’odontoiatria statale. «Usando una terminologia aziendale si può dire che ci si sta avviando velocemente a una professione di mantenimento più che di espansione e per rilanciarla pensiamo a un progetto di network per i nostri associati» dice Gianfranco Prada, presidente in carica dell’Andi. Di conseguenza solo una fetta di odontoiatri risponde investendo sulla qualità, il resto è portato a rattrappirsi. Del resto un dentista non si può riciclare facendo altri lavori e le prestazioni che vengono a mancare sono quelle a maggior valore (e reddito) aggiunto come le riabilitazioni protesiche o l’implantologia.
Se il mercato si restringe il guaio è che aumentano i soggetti in campo. Non a caso l’indagine Andi testimonia che l’82,6% dei dentisti manifesta una certa preoccupazione per il propagarsi di forme di esercizio professionale supportate da società di capitali e franchising. Insomma se una volta l’odontoiatria privata era monopolio del dentista, ora le iniziative «capitalistiche» si moltiplicano e giocano su terreni che il professionista tradizionale non conosce. La pubblicità, i negozi al piano terra, l’offerta di prestazioni gratuite (l’ablazione del tartaro) per catturare il cliente. Lo spauracchio dei dentisti italiani si chiama Vitaldent, usa Barbara D’Urso come testimonial, ha 54 studi in Italia di cui 11 nella sola Milano e sta pianificando anche l’ingresso nel Sud. E Vitaldent non è più sola, l’elenco delle sigle si arricchisce di continuo: Vacupan Italia, Caredent, Smile Factory. I dentisti si lamentano anche che lo Stato sia diventato concorrente tramite le Asl pubbliche e le sedi universitarie che per aiutare il proprio conto economico intercettano pazienti potenzialmente appannaggio della libera professione con onorari calmierati. In una situazione che l’Andi definisce di mercato selvaggio cresce anche l’abusivismo, si esercita la professione negli studi senza averne il titolo o magari con un giovane dentista come prestanome.
Per i trentenni la problematica è differente specie se non hanno un papà o uno zio del mestiere. Hanno studiato da dentisti spinti da genitori condizionati dallo stereotipo di una professione facile e ricca. Si definiscono free lance dell’odontoiatria e devono spostarsi durante il giorno tra diversi studi collocati persino in differenti città, si considerano sottopagati pur arrivando a 70 ore settimanali, non avranno mai un loro studio e eserciteranno la professione come collaboratori o come dipendenti. Di fronte alla drammaticità dei problemi l’Andi si lamenta che l’odontoiatria conta poco per le istituzioni ma probabilmente la chiave del rilancio non è in termini di lobby bensì di «specializzazione delle competenze» come sostiene la sociologa Silvia Cortellazzi dell’Università Cattolica di Milano. Gli studi odontoiatrici dovrebbero avere uno o più persone che si occupano degli aspetti organizzativi e consentano ad altri professionisti di concentrarsi sulla pratica clinica.
Associarsi è quindi la ricetta perché se è vero che la professione in passato ha goduto di un eccesso di protezione, oggi paga il conto con una mancanza di regolamentazione nel presente e l’assenza di programmazione per il futuro. Inseguire la società che cambia, è il consiglio della sociologa. Occorre riuscire a immaginare ruoli nuovi che possano soddisfare i bisogni dei pazienti e riportare indietro la clientela fuggita. Magari specializzandosi nella cura dei pazienti anziani, solo per fare un esempio.
L’impressione è che gli odontoiatri non siano più visibili, riconoscibili grazie a un ruolo chiaro e a un’identità definita e che i compiti che svolgono non siano più riconosciuti da tutti come un servizio di valore, tanto più che le prestazioni offerte in Paesi oltrefrontiera sembrano più appetibili anche se la salute viene trattata come pura merce. Che fare, allora? C’è chi propone la formazione degli studenti negli ospedali provando l’esperienza del pronto soccorso perché darebbe un riconoscimento più solido all’esterno e integrerebbe la nuova figura del dentista nel sistema di cura del Paese. Ma è chiaro che non basta e comunque varrebbe solo in futuro. E così la sociologa Cortellazzi parla di proporre «una reinvenzione soggettiva del ruolo del dentista», una formula accattivante ma tutta da delineare in concreto.

Fonte: Corriere della Sera del 21 giugno 2011

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