• sabato , 23 Novembre 2024

Decreto lavoro, una mancia anche alle aziende

Il decreto-legge dovrebbe essere uno strumento di governo abbastanza eccezionale, da usare solo, come prescrivono le norme, quando ci siano motivi di “necessità e urgenza”. Che le norme sul lavoro a tempo determinato fossero necessarie è del tutto opinabile: il governo è evidentemente convinto di sì, mentre molti altri ritengono invece che non solo non siano necessarie, ma siano addirittura dannose. Quello che invece è palesemente assente è il requisito di “urgenza”, che si può invocare per esempio di fronte a una circostanza eccezionale, come un disastro naturale, o magari a una scadenza importante. Sul lavoro non si è verificato nessun evento improvviso e non c’erano scadenze in vista: quindi il decreto non avrebbe potuto essere usato e il presidente della Repubblica avrebbe dovuto intervenire in proposito.

Matteo Renzi e Giuliano PolettiFatto sta che il decreto c’è e dunque è bene interrogarsi sul suo significato. Prevede che le imprese possano assumere con contratti a tempo determinato senza motivare questa scelta, potendoli rinnovare (sempre senza motivazioni) fino a otto volte per un totale di 36 mesi (contro i due anni precedenti). Di fronte alle molte critiche che ha suscitato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, si è detto disponibile ad accettare qualche modifica: ma la disponibilità è finta almeno quanto l’urgenza, perché si spinge solo a ridurre i rinnovi a sei, ma restando invariato il periodo complessivo.

Il rinnovo può essere deciso o negato del tutto arbitrariamente dal datore di lavoro. Alla fine dei tre anni, le norme precedenti prescrivevano di assumere stabilmente almeno un 30% dei precari qualora si volesse continuare a fare uso di questo strumento: anche quest’obbligo è caduto. Quindi d’ora in poi le aziende potranno tenere un quinto della forza lavoro senza garanzie, rinnovando ogni tre anni il “parco precari”. Un quinto della forza lavoro a potere contrattuale zero, dato il continuo rischio di non rinnovo, probabilmente impiegata in mansioni che non richiedono grande professionalità, visto che da un momento all’altro possono essere affidate a un nuovo precario. E si può dunque immaginare con quale incentivo alla formazione.

Si continua dunque a favorire l’impiego di manodopera a basso costo e basse qualifiche, con l’effetto di non spingere le imprese ad investire in innovazione e a puntare invece essenzialmente sul basso costo del lavoro. Una strategia perdente, come la storia degli ultimi anni ha dimostrato, con la stagnazione della produttività e la perdita di competitività del sistema-paese.

Ma perché varare, e con tanta fretta, un provvedimento che è oltretutto contraddittorio con la riforma annunciata del jobs act, come molti esperti hanno fatto notare e come lo stesso Poletti ha finito per ammettere? La spiegazione più plausibile ha poco a che fare sia con l’economia che con il mercato del lavoro, e va invece cercata nella politica. Si ricorderà che c’è stato un accenno di dibattito su come destinare le risorse per la riduzione del cuneo fiscale, se alle buste paga dei lavoratori o alla riduzione dell’Irap. Renzi, in vista di un test importante come le elezioni europee (e c’è anche il rinnovo di molte amministrazioni locali), ha tagliato corto imponendo la prima ipotesi. Ma evidentemente non ha voluto lasciare le imprese a bocca asciutta, per scongiurare il rischio di qualche bordata come quelle che la Confindustria aveva sparato contro il governo Letta. E siccome di soldi non ce ne sono, i suoi consiglieri hanno tirato fuori dal cappello questo decreto. In questo modo si capisce anche quale fosse l’”urgenza”: bisognava farlo in concomitanza con l’altro provvedimento, e una promessa (quale sarebbe stata con lo strumento normale del disegno di legge) non sarebbe stata abbastanza. Intanto bisogna prendere i voti, alla produttività ci si penserà con calma.

Fonte: Blogging in the wind - 7 Aprile 2014

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