Si può separare il problema della Banca d’Italia da quello di Antonio Fazio? In modo da sgombrare il campo dai sospetti, pretestuosi quanto si vuole ma comunque inquinanti, che le critiche al governatore siano dovute a ragioni politiche, o confessionali, o insufflate da lobby che si sono sentite sfavorite dalle sue decisioni?
Si può. La domanda è: se sullo scranno di Fazio sedesse una persona che nessuno si sentirebbe di attaccare – che so, Luigi Einaudi, o magari Carlo Azeglio Ciampi, ormai prossimo alla santificazione – ci sarebbe o no il dibattito sulla riforma della Banca d’Italia?
La risposta è no, perché questo dibattito avrebbe dovuto cominciare almeno dieci anni fa e nessuno lo ha fatto. Però dovrebbe esserci ugualmente. I motivi non sono affatto misteriosi e chiunque abbia seguito l’evoluzione dell’economia negli ultimi vent’anni, e del sistema del credito in particolare, potrebbe elencarli facilmente.
Ancora all’inizio degli anni Ottanta il sistema del credito aveva un assetto – e un funzionamento – radicalmente diverso da quello attuale, come pure tutto il settore finanziario in generale. Il complesso delle banche, che per circa il 95% faceva capo, in vari modi, al controllo pubblico, si poteva senza esagerazione paragonare a un grande ministero. Ogni banca aveva il suo ambito territoriale di competenza, da cui non poteva uscire; tutta la rete nazionale era rigidamente regolata dal “Piano sportelli”, elaborato da Bankitalia; la vigilanza era “diretta”, ossia sull’attività creditizia vera e propria: per ogni operazione superiore ad un certo importo si doveva chiedere l’autorizzazione alla sede provinciale di Bankitalia; una legge imponeva alle banche il “vincolo di portafoglio”, che consisteva nell’obbliga di comprare e tenere in portafoglio determinati tipi di obbligazioni (per esempio, quelle per i finanziamenti all’agricoltura). La stessa Banca centrale era tenuta, per legge, ad acquistare tutti i titoli pubblici emessi dal Tesoro che non fossero assorbiti dal mercato, il che equivaleva a finanziare la spesa pubblica emettendo carta moneta, con quale effetto sull’inflazione si può immaginare e con quale rigore per il controllo dei conti pubblici lo vediamo ancora oggi dall’enorme debito accumulato.
Il contesto nel quale il settore del credito operava era altrettanto sideralmente lontano da quello attuale. La globalizzazione era al di là da venire, l’enorme massa della finanza derivata non era stata ancora inventata, in Italia vigeva il divieto di esportare capitali che sarebbe rimasto in vigore fino alla soglia degli anni ’90; la Borsa non era un mercato ma un mercatino, attorno al quale ruotavano non più di 300.000 investitori; i titoli pubblici si erano da pochi anni diffusi tra i risparmiatori, nel corso dell’impennata inflazionistica degli anni ’70, ma ancora non esisteva un mercato secondario degno di questo nome: ce n’era solo un abbozzo, che veniva interamente sostenuto dalla Bnl, la “banca del Tesoro” e allora la più importante banca italiana. Bot e Cct erano quasi la sola forma di investimento esistente, a parte le azioni; i Fondi comuni sarebbero nati nell’84.
Nel corso di quel decennio, e più ancora di quello successivo, tanto il sistema finanziario internazionale che quello creditizio italiano avrebbero conosciuto una vera e propria rivoluzione. Gli accordi internazionali avrebbero spinto verso la vigilanza di tipo indiretto, basata sui coefficienti patrimoniali (ossia l’attività si poteva espandere solo per determinati multipli dei mezzi propri), introducendo una dimensione più vicina a quella dell’impresa. La globalizzazione finanziaria, il cui biglietto da visita fu la grande tempesta mondiale sui cambi del 1992, imponeva trasormazioni radicali e anche in un periodo breve.
Il resto lo fece l’Europa, con la sempre maggiore integrazione economica e il progetto della moneta unica. Il primo passo fu il cosiddetto “divorzio” fra Bankitalia e Tesoro, con la fine dell’obbligo di acquistare i titoli pubblici non sottoscritti; seguì la liberalizzazione degli sportelli e la fine dei limiti territoriali per l’attività. La “legge Amato” tracciò la strada per trasformare tutte le banche in società per azioni. Sull’onda della crisi del ’92 si sarebbe sbloccata la prima grande privatizzazione, quella del Credito Italiano. Il sistema del credito era passato da “servizio pubblico” al mercato e nel mercato.
Ma per le banche italiane non era un processo facile come scrivere questa frase. Dovevano rafforzarsi da punto di vista patrimoniale, espandersi, crescere, guadagnare in efficienza, imparare a sostenere la concorrenza che ben presto non sarebbe stata solo casalinga, ma europea e globale. Cominciarono le fusioni e acquisizioni, fortemente incoraggiate dalla stessa Banca d’Italia che si era messa alla guida di questo processo.
Un po’ troppo, alla guida. Se nella primissima fase gli accordi tra le grandi banche erano stati pesantemente condizionati (e molto spesso paralizzati) dai partiti, l’effetto combinato di Tangentopoli, con la fine della Prima repubblica, e del nuovo corso creditizio aveva ridotto fortemente la capacità di influenza della politica. Si faceva sempre più stringente, invece, il controllo di Bankitalia. Qualsiasi operazione doveva avere la sua benedizione preventiva; anzi, dopo le due Opa annunciate contemporaneamente dall’Unicredito su Comit e dal San Paolo sulla Banca di Roma (poi bocciate da Fazio, che le voci volevano stizzito per non essere stato preventivamente consultato), venivano emanate delle regole di vigilanza con cui si disponeva che gli amministratori avrebbero dovuto interpellare Bankitalia sull’opportunità di qualsiasi operazione prima ancora di informarne il loro stesso consiglio di amministrazione. Il che, per delle società quotate – e a volte quotate anche all’estero – appare quantomeno singolare.
Insomma Fazio – a questo punto è necessario parlare anche della persona, oltre che dell’istituzione – si era posto non solo come giudice assoluto e inappellabile, ma anche come l’unico costruttore del nuovo sistema del credito in Italia. Spettava alla Banca d’Italia – cioè in ultima analisi a lui solo – stabilire se una certa operazione si poteva fare oppure no, senza neanche l’obbligo di giustificare la decisione (e infatti le spiegazioni, quando c’erano, erano estremamente scarne e i criteri addotti per motivare la scelta apparivano a volte in contraddizione con quelli enunciati in precedenza).
Era quello il momento in cui la politica avrebbe dovuto intervenire, per cambiare le regole in un mondo che era già radicalmente cambiato. Si può lasciare nelle mani di un uomo solo, che fosse Fazio o Einaudi o Ciampi, che fosse pure un genio, si può lasciare a un uomo solo il compito di ridisegnare completamente il sistema del credito del sesto paese industriale del mondo? Senza neanche esser tenuto a giustificare dettagliatamente le sue decisioni?
Eppure, questo è ciò che è stato fatto. Fazio ha sempre fatto tutto ciò che ha voluto, ma in modo perfettamente legittimo, perché le regole glielo consentivano.
Non stiamo sostenendo, si badi bene, che sarebbe stato necessario o opportuno lasciare che la ristrutturazione del credito in Italia fosse lasciata completamente al mercato, quale arbitro della migliore efficienza. Può darsi che il mercato raggiunga sempre la migliore efficienza possibile, ma non premia solo i bravi, punisce anche severamente chi sbaglia. E questo, nell’ambito creditizio, è decisamente pericoloso: una banca che fallisce, anche se si tutelano i depositanti, può generare crisi sistemiche, e alla fine il prezzo che si paga può essere elevatissimo o addirittura incontrollabile. Ma certo tra l’abbandonarsi al mercato e l’affidarsi ad un solo uomo esiste una gamma di soluzioni che dovevano essere studiate.
Oggi, come spesso accade, il problema è esploso per vari altri motivi che poco hanno a che fare con quello principale che avrebbe dovuto far varare già da molti anni una riforma seria. E’ però l’occasione per farla, questa riforma. Le istituzioni si disegano a prescindere dagli uomini che le guideranno, mettendo in conto che potranno essere geniali oppure mediocri, di specchiata rettitudine o di malferma onestà. Si può e si deve prescindere dal caso Fazio. Ma sarebbe un grave errore perdere anche questa occasione per varare una riforma.
Fonte: Eguaglianza & Libertà del 27 settembre 2005