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Dazi, catene globali del valore e il (doppio) boomerang di Trump

di Fabrizio Onida

L’avvicinarsi delle elezioni a medio termine sta portando Trump a enfatizzare il suo “America First” proponendo di alzare pericolosamente la soglia delle mosse protezionistiche contro le presunte “pratiche commerciali sleali”della Cina (Sezione 301 del Trade Act del 1974), con dazi che dagli attuali 50 miliardi di dollari arriverebbero a colpire quasi la metà dei circa 500 miliardi di merci importate da quel paese. Dall’inizio di aprile 2018 vi è stata una escalation di dazi americani, partendo da acciaio e alluminio ed estendendosi a pannelli solari, macchine lavatrici e altri prodotti, a cui la Cina ha replicato con dazi su 60 miliardi di importazioni dagli Usa. Dal 17 settembre è scattata una Fase 2, che vede colpiti altri 5745 prodotti cinesi importati del valore di quasi 180 miliardi.

La fase 3 colpirebbe poi altre fasce di prodotti, prevalentemente intermedi e beni strumentali. Attorno a lui qualche consigliere, come Larry Kudlow a capo del National Economic Council, ha cominciato a suggerire un approccio meno dirompente (dazi del 10% su alcune categorie di prodotti) e a distanza di poche ore lo stesso Trump ha annunciato la riduzione al 10% dei dazi su alcune categorie di beni, temendo l’impopolarità presso gli elettori di rincari su prodotti di largo consumo largamente importati dalla Cina. I falchi come lo USTR Robert Lighthizer sembrano ancora convinti che la linea dura sia politicamente pagante.

Agli occhi degli osservatori occidentali (giapponesi inclusi) è sempre più evidente un comportamento erratico e imprevedibile di Trump, come emerso dalle mosse dirompenti sul Nafta, dalla rottura delle trattative sul TTIP e dalle minacce alla stessa esistenza della WTO. Colpisce invece la scarsa consapevolezza dei suoi più stretti consiglieri (almeno quelli che non hanno ancora defezionato) sul fatto che incidere pesantemente sulle esportazioni cinesi negli USA, in particolare su beni strumentali, componenti intermedi e semilavorati produrrebbe inevitabilmente ripercussioni negative sugli stessi prodotti “made in USA”: un esempio curioso di autolesionismo.

Non si tratta solo delle probabili ritorsioni cinesi sulle esportazioni americane, visto che la GM esporta più auto in Cina di quante non ne vende sul mercato interno USA e i dazi cinesi di rappresaglia sulla soia colpiscono la “farm belt” di fede trumpiana in quanto i produttori americani di semi di soia dipendono dalla Cina per il 60% della propria produzione. Per non parlare dei dazi già applicati sull’acciaio (35%) e alluminio (10%) che – come notato da molti – mirano a difendere 80.000 posti lavoro nell’industria metallurgica mettendo a repentaglio (tramite aumenti dei costi di approvvigionamento della materia prima) 900.000 posti lavoro nell’industria dell’auto e almeno altri milioni di addetti nei settori a valle utilizzatori di questi semilavorati.

Ma quello che sembra sfuggire alla comprensione di Trump e dei suoi falchi consiglieri è che negli ultimi decenni è molto cambiata la struttura geografica e merceologica del commercio mondiale, a causa delle cosiddette “catene globali del valore”. Ciò che oggi un paese avanzato acquista dall’estero incorpora quote significative di valore aggiunto (PIL) del paese importatore, contenuto in migliaia di prodotti intermedi e semilavorati (parti e componenti) che lo stesso paese ha prodotto e ceduto attraverso numerose trasformazioni in processi produttivi sparsi nel mondo. Questo valore aggiunto nazionale viene pertanto penalizzato nel momento in cui i dazi colpiscono l’importazione di prodotti finiti. E’ tra l’altro il caso degli “orologi smart” come l’Apple Watch incluso nella più recente lista della Fase 2.

Una recente ricerca del centro studi di Unicredit a Francoforte (Economics Thinking, n. 76, 7 settembre 2018) valuta che nel 2017 il 56% dei flussi nominali di export a livello globale era coinvolto in catene internazionale multi-stadio di valore della produzione. Tale percentuale raggiungeva il 65% per i paesi europei e intorno al 45% per USA e Cina.
Il Peterson Institute di Washington stima che quasi il 90% dei prodotti messi nel mirino dei dazi sulle esportazioni cinesi negli USA hanno un basso contenuto di valore aggiunto cinese e invece un alto contenuto di valore aggiunto americano e un notevole contenuto di valore aggiunto di altri paesi, asiatici in particolare.

Secondo Laura Tyson (Project Syndicate, 18 giugno 2018) l’86% delle importazioni USA di computer (63% delle attrezzature elettroniche, 59% della meccanica non elettrica) incorpora valore aggiunto statunitense contenuto nelle produzioni delle multinazionali USA che operano fuori dagli USA.

I numeri dovrebbero valere più delle emozioni e soprattutto dei pregiudizi. Le mosse “sovraniste” di Trump meriterebbero un ragionevole contraddittorio anche da parte della classe politica e imprenditoriale che lo circonda.

Fonte: Sole 24Ore del 26 settembre 2018

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