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Dal rigore di Angela Merkel al cemento di Adolf Merkle

Dal rigore di Angela Merkel al cemento di Adolf Merkle

di Bruno Costi

Se occorreva una prova  evidente  che  il tanto divinizzato rigore finanziario tedesco non è  altro che lo strumento di dominio industriale della Germania sull’intera Europa, la vendita di Italcementi ai tedeschi della Heidelberg equivale alla  prova Regina, alla classica “pistola fumante” che ogni poliziotto vorrebbe trovare quando cerca il colpevole di un delitto.

Per capirlo  meglio bisogna  però recuperare i fatti e fare un passo indietro.

I fatti sono che Italcementi, primo produttore italiano di cemento e fino a 5 anni fa primo produttore anche europeo,  accetta  la classica proposta che non si può rifiutare dai tedeschi di Heidelberg, ovvero vende il controllo dell’azienda  ultracentenaria, un pezzo di storia industriale del Paese, al prezzo di 1,66 miliardi di euro,  con un premio del 70% sui valori medi del titolo in borsa, una cosa mai vista, a detta di chi naviga da sempre sui mercati borsistici.

Ai tedeschi, che non se la passano granchè bene nella competizione con l’altro colosso mondiale del cemento, il gruppo franco-svizzero Holcim-Lafarge, l’acquisizione  consente di conquistare il secondo posto nel podio dei produttori mondiali di cemento, e di sbarcare in mercati  nei quali mai avrebbero sognato di poter entrare, come  l’Italia, l’Africa, dove Italcementi  ha una posizione di dominio.

Sicchè c’è da chiedersi come facciano i tedeschi a pagare così tanto;  loro che appena sei anni fa erano sull’orlo del fallimento,  costretti a vendere pezzi dell’impero, sommersi dai debiti, azzannati dalle banche, tanto da spingere al suicidio il  loro  padre-padrone Adolf Merkle, dopo una speculazione sbagliata sulle azioni  delle auto Porche.

Ed è qui che il nesso con la politica di Angela Merkel appare evidente.

Con l’adozione dell’Euro come moneta unica europea tutti gli stati appartenenti all’Euro-aera  rinunciano alla sovranità  sulla moneta e dunque alla possibilità di agire sul cambio, svalutandolo per recuperare competitività sui mercati di esportazione.

E’ vero, la svalutazione non è  la strada più elegante per competere sui mercati internazionali; la competitività dovrebbe derivare dall’efficienza delle aziende e del sistema Paese, dalla produttività del lavoro e dai mercati dei capitali. Ma quando di mezzo ci sono  6 milioni di disoccupati e inoccupati come accade in Italia,  l’eleganza può momentaneamente essere messa da parte.

Fatto sta che  neutralizzando il cambio,  la Germania lega le mani ai suoi  competitori. Di più: perché imponendo ad essi  pesanti politiche di rientro del debito,   li costringe  a tassare i cittadini, a tagliare le spese e li sprofonda nella recessione come accaduto in mezza Europa, soprattutto in Grecia  ma anche in Italia dove, secondo il Fondo monetario, occorreranno 20 anni per tornare  ai livelli di occupazione che avevamo nel 2007.

I risultati vanno osservati sotto due punti di vista:   dal lato macroeconomico, grazie a questa politica la Germania  accumula da dieci anni un surplus di bilancia dei pagamenti che oggi arriva a 300 miliardi di euro,  una cifra colossale, più alta del surplus cinese, che inonda la Germania di capitali risucchiandoli dai mercati finanziari del resto d’Europa e, di conseguenza, azzera i tassi d’interesse.

Dal punto di vista microeconomico, ovvero dell’economia industriale, le politiche del rigore senza intelligenza  affondano l’Europa, e segnatamente l’Italia, nella più pesante  e prolungata recessione dal dopoguerra che da sette anni blocca gli investimenti in infrastrutture sia privati che pubblici e toglie l’ossigeno dei fatturati , tra gli altri, proprio al comparto delle industrie del cemento sul quale oggi  i tedeschi fanno shopping.  La prova? Appena 5 anni fa, nel 2010,  l’Italia era il primo produttore di cemento d’Europa con 46 milioni di tonnellate ma nel 2015 la produzione è più che dimezzata a 20 milioni di tonnellate, divise tra 12  principali produttori , di cui Italcementi è il più grande  ma anche il più indebitato e meno profittevole.

Così, grazie alla recessione che indebolisce ed indebita Italcementi,  Heidelberg può oggi  facilmente acquistare il gruppo Italiano che appena un anno fa  non avrebbe mai accettato mirando invece ad essere lui  interessato a crescere con acquisizioni; e grazie alla morsa della finanza Heidelberg può concludere l’acquisizione totalmente a costo zero,  grazie a tassi d’interesse azzerati,  e per giunta facendosi finanziare dalla stessa Italcementi che acquisirà un 4-5% del Gruppo totalmente ininfluente sulle decisioni e sulle strategie.

Una manovra a tenaglia perfetta, in cui il rigore della Merkel toglie ossigeno alle imprese italiane  che, stordite e fiaccate dalla recessione,  si consegnano , senza reagire, nelle mani alle aziende tedesche rese ricche dagli abbondanti capitali a basso costo che provengono  proprio dai mercati  e dalle aziende che conquistano. Come dire che  fanno shopping in Italia con i soldi degli italiani.

Avrebbe potuto Heidelberg fare tutto ciò se finanziare l’acquisizione a debito fosse costato ai tedeschi il 5% di interessi che costa alle aziende italiane? E  avrebbe trovato ascolto  in casa Pesenti se il gruppo italiano avesse macinato fatturati con una crescita degli investimenti in infrastrutture in Italia?

Il dubbio  è più che lecito. Dopo Parmalat, BNL, Pirelli  e, ora, Italcementi i  grandi gruppi italiani uno ad uno cambiano padrone, si impoverisce il capitalismo italiano, declina il Paese. Non è questa l’Europa che vorremmo . E non sono questi i capitalisti , a Berlino come a Bergamo, che servirebbero.

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2 Commenti

  1. Giuseppe Gentile
    18 Marzo 2016 di 9:47 Rispondi

    Tutto molto chiaro, ma allora ha ragione chi vuole uscire dall’ Europa ? La Merkel e i tedeschi non sembrano voler mollare la loro posizione dominante. E’ per caso il modo “pacifico” per arrivare al “sogno” tedesco costato le guerre del secolo scorso ?
    Qual è la soluzione dal punto di vista economico ?
    Grazie

  2. Bruno Costi
    18 Marzo 2016 di 18:32 Rispondi

    Caro Giuseppe, la costruzione dell’Europa è un processo dinamico ce non ammette lo stato di quiete: o avanza , o arretra.
    Nella terra di mezzo in cui ci troviamo hanno buon gioco solo i paesi più forti che riescono a far passare per soluzioni europee la difesa dei propri interessi nazionali. Che fare? Come dicevo, o si avanza, cioè si fa un salto di qualità nella costruzione di un’Europa politica, fatta di uno Stato federale europeo, elezioni europee per decidere il governo europeo, con ministri europei, con campagne elettorali europee fatte da partiti europei , con programmi europei; oppure si arretra , riavvolgendo il nastro perfino di ciò che si è fatto finora di unitario, Schengen, libera circolazione delle merci, Euro.
    Io preferirei la prima soluzione, cioè più Europa, benché siano molte le differenze tra i popoli. Ma certo dovremmo discutere il metodo per selezionare chi comanda, come equilibrare rappresentanze politiche e territoriali, ed i partiti dovrebbero dirci come intendono elaborare programmi di governo europei sui quali chiedere il consenso gli elettori .
    Bruno Costi

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