di Fabrizio Onida
Entrambi i candidati al prossimo rinnovo della presidenza di Confindustria sostengono nel proprio programma, con parole diverse, l’importanza di “filiere orizzontali” (Alberto Vacchi) e di “reti di impresa (Vincenzo Boccia) come driver di sviluppo e di competitività del nostro frammentato sistema produttivo.
Per evitare la diffusa retorica del “fare sistema” o “mettersi in rete”, spero che la prossima presidenza confindustriale non perda di vista due obiettivi, tra loro complementari, necessari per ridisegnare una politica industriale che non si esaurisca nei tavoli di crisi aziendale e nel dibattito su virtù e vizi delle privatizzazioni, ma neppure nella promozione a pioggia di startup (che dopo lo “start” non riescono mai a realizzare la fase “up”) e di parchi scientifici e tecnologici privi di chiare finalità e regole di valutazione dei risultati.
In primo luogo, il sostegno pubblico alle reti di impresa dovrebbe incoraggiare la formazione di sempre più numerosi “ecosistemi innovativi”, sulle cui caratteristiche abbonda la letteratura di economia industriale. Come sottolinea Gianfelice Rocca, l’Italia gode di meritata reputazione nella generazione e diffusione delle medie e medio-alte tecnologie, nella propensione alle “innovazioni combinatorie”, ricordando che “la vitalità degli ecosistemi del’innovazione si basa sulla contiguità territoriale”[1]. Sulla promozione di un numero selezionato di ecosistemi innovativi si basano le proposte di politica industriale nei maggiori paesi europei (per non parlare degli USA), come i “poli di competitività” francesi, i “centri catapulta” britannici, i 15 distretti tecnologici tedeschi e altri ancora. Citando i lavori del programma LEED dell’OCSE, Sandro Trento e Flavia Faggioni sottolineano che “gli incubatori di impresa non possono funzionare bene se non sono accompagnati da un approccio più sistemico” che dovrebbe “puntare sulla creazione di ecosistemi imprenditoriali”[2]. L’ecosistema innovativo è fatto di accordi formali (contratti di rete) e informali che spaziano da ricerca e progettazione a infrastrutture informatiche, commercio elettronico, formazione del personale, approvvigionamento, logistica, distribuzione e servizi post-vendita, servizi tecnologici e professionali
Vi è evidenza empirica che: a) imprese più in grado di interconnettersi con l’ambiente esterno fanno più innovazione di prodotto e di processo; b) maggiore interconnessione genera maggiore competitività sul mercato interno e soprattutto sui mercati esteri; c) la capacità di operare in connessione ambientale aumenta al crescere della dimensione media dell’impresa in termini di addetti e fatturato.[3]
Con le parole del Centro Studi Confindustria, “l’intervento pubblico trova una giustificazione teorica in quanto orientato a favorire una progressiva aggregazione di attività imprenditoriali intorno a progetti industriali innovativi in un’ottica di sistema – ossia tale da coinvolgere una pluralità di soggetti”[4].
In secondo luogo, non ultima delle cause della drammatica caduta della produttività in Italia (la crescita del PIL potenziale è scesa dal 3,5% all’inizio degli anni ’70 a circa zero nell’ultimo quindicennio) è la cronica mancanza di istituzioni pubbliche e private mirate a colmare la cosiddetta “valle della morte” tra i (numerosi e dispersi) luoghi di eccellenza tecnologica (Università e centri di ricerca) e le imprese, uniche in grado di trasformare scoperta scientifica in innovazione tecnologica-produttiva-organizzativa. Sotto questo profilo il primato in Europa va al sistema tedesco, che affianca agli 83 istituti del Max Planck (ricerca “di base”) i quasi 70 istituti della società Fraunhofer dedicati al trasferimento tecnologico alle imprese, questi ultimi finanziati per circa due terzi dal settore privato. Non solo: la Germania è all’avanguardia nella formazione superiore, mirata a valorizzare il “merito ordinario”[5] attraverso un articolato sistema che vede operare, accanto ai tradizionali atenei universitari, quasi 200 Fachhochschule (istituti tecnici superiori) e più di 100 (Università imprenditoriali” ovvero Università delle scienze applicate. La missione di queste ultime aggiunge alle classiche funzioni di istruzione e ricerca una terza fondamentale funzione di creazione e sviluppo di imprese.[6]
L’Italia ha meritatamente generato il sistema dei distretti industriali, che in molte aree mantiene una sorprendente vitalità, ora è tempo di guardare avanti, senza miti ma con coraggioso riformismo.
[1] Gianfelice Rocca, Riaccendere i motori. Innovazione, merito ordinario, rinascita italiana, Marsilio 2014, p. 36, 50, 137. Cfr. anche Moretti E., La nuova geografia del lavoro, Mondadori 2015.
[2] Sandro Trento e Flavia Faggioni Imprenditori cercasi. Innovare per riprendere a crescere, Mulino 2016, p. 162-3.
[3] Istat, 9° Censimento industria e servizi, Relazioni e strategie delle imprese italiane, 18 novembre 2013.Sulla dinamica attrattiva delle zone urbane orientate all’innovazione tecnologica si veda anche Enrico Moretti, La nuova geografia del lavoro, Mondadori 2013, cap. IV.
[4] CSC, Scenari industriali, giugno 2014, p. 105.
[5] G.Rocca, cit. p. 114.
[6] Ad esempio, si veda “Promoting successful graduate entrepreneurship af Fachhochschule Brandernburg, Germany, OECD Local Economic and Employment Develpment (LEED), WP 2013/04.
Fonte: Lavoce 22 marzo 2016
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