• lunedì , 16 Settembre 2024

Da cosa dipende lo sviluppo

Inutile stare a sentire le autorità. È invece molto meglio seguire l’andamento degli investimenti, dei salari del credito e del fisco.Ma non bisogna dimenticare il Mezzogiorno.
Dire oggi come andrà l’economia italiana il prossimo anno è quasi impossibile. Molto dipende dalla soluzione che l’Unione europea troverà per i suoi continui mal di pancia frutto del cattivo nutrimento. Le previsioni sugli andamenti dell’economia mutano da trimestre a trimestre e non rispondono quindi agli scopi che esse perseguono: consentire allo Stato, alle imprese e alle famiglie di fare programmi di produzione e di consumo.
Nonostante siano stati messi a punto giganteschi e costosi apparati econometrici di centri pubblici e privati, la complessità degli eventi e il peso delle decisioni politiche sono tali che, nella migliore delle ipotesi, è possibile avanzare solo congetture basate su metodi di lettura delle prospettive di mercato.
Per l’Italia occorre farsi un’idea su come andrà la domanda estera, dato che si dispone di una vasta esperienza storica sulla natura della nostra economia di tipo export-led, trainata dalle esportazioni. Un terzo delle esportazioni italiane è destinato a Germania, Francia e Stati Uniti.
Ove si escluda la Germania, nostro maggiore cliente, ma restia a espandere la domanda interna aumentando (come dovrebbe) la spesa pubblica, le previsioni di crescita dell’area di nostra gravitazione offrono una bassa probabilità di traino del nostro sviluppo. Occorre spingersi maggiormente verso la Cina e aree connesse (Singapore, Hong Kong e Taiwan), l’India, l’Indonesia, la Malesia, la Russia, la Svezia, la Turchia, l’Arabia Saudita e buona parte del Sud America; non è facile raggiungere lo scopo, perché tutti si rivolgono ai mercati che tirano e attirano.
Affinché la congettura non ci porti fuori strada non si deve stare a sentire le autorità, le cui dichiarazioni crescono al ridursi della possibilità che esse hanno di fare qualcosa per lo sviluppo. Occore invece farsi un’idea quanto più possibile precisa su questi quattro temi:
1. L’andamento degli investimenti, che sono i veicoli dell’innovazione tecnologica foriera di produttività;
2. Gli aumenti salariali si accompagnano a una crescita della produttività perché spingono la domanda di consumi senza scoraggiare i profitti;
3. L’atteggiamento delle autorità monetarie. Se manterranno condizioni di credito facile e bassi interessi ufficiali e saranno caute nell’evitare che la legislazione incombente causi effetti negativi sui finanziamenti alla produzione e consumo;
4. La politica delle autorità fiscali, soprattutto quelle europee, per capire se manterranno la loro attitudine deflazionistica osi renderanno conto che la richiesta di un maggiore rigore, pur fondata, è nel breve andare controproducente e, quindi, non attuale.
La nostra idea è che per investimenti e salari non spira un’aria buona. Il mercato ha fiutato questa situazione e spinge i governi a fare di più, distinguendo tra i Paesi che hanno margini finanziari, a cui vengono chieste maggiori spese, e quelli che non li hanno, a cui si chiedono riforme. Ove si escludano le solite Cina e Germania, più altre piccole economie, l’espansione della politica fiscale è impallata da problemi di finanza pubblica che spingono verso riforme dei modi d’essere della società, ancor prima dell’economia, piuttosto che verso una maggiore domanda.
La politica monetaria, invece, per mandato ricevuto (caso della Federal Reserve Americana) o per necessità (caso della Banca Centrale Europea), va colmando il vuoto fiscale per evitare una caduta grave dell’attività reale che si rifletterebbe in difficoltà del mercato del credito alle imprese e della finanza pubblica, causando più gravi conseguenze di quelle dovute alla già bassa crescita reale.
In questi ultimi tempi si è assistito a un profondo mutamento degli obiettivi della politica monetaria; le banche centrali si sono dedicate alla cura della stabilità finanziaria piuttosto che al più classico controllo dei prezzi, pur essendo due facce della stessa medaglia. Ciò è stato possibile perché l’inflazione è controllata dalla bassa crescita della domanda, soprattutto in Europa, ma gli interventi necessari a stabilizzare i mercati del credito e dei titoli hanno creato un habitat inflazionistico globale che può esplodere appena la situazione gira.
E ciò accadrà, perché le crisi comunque finiscono. Per questo motivo le banche centrali si rifiutano di inviare segnali forti di sostegno dell’attività produttiva, negando che sia un loro compito farlo, e sono prodighe di avvertimenti che prima o dopo devono rientrare nell’ortodossia delle gestioni monetarie. Fa eccezione la Fed americana che si è avventurata ad annunciare un orizzonte temporale pluriennale (fino a metà 2013) per la sua politica espansiva. È cosa nota che gli Stati Uniti pongono poca attenzione al valore del dollaro, che considerano la loro moneta, ma un nostro problema.
Infatti lo è ed è per questo motivo che tra le incognite dello sviluppo vi è anche l’andamento del cambio dollaro-yuan, i cui mutamenti, una volta risolta la crisi dell’euro, possono incidere sulla capacità di esportare delle imprese italiane attraverso rivalutazioni del cambio della moneta europea.
Va aggiunto che l’uso di un’unica lente di lettura dell’economia italiana non si adatta alla profonda spaccatura che si va accentuando tra Nord e Sud d’Italia, con andamenti che, per alcune regioni, Lombardia in testa, non possono lasciarle indifferenti, perché la domanda meridionale rappresenta una parte significativa del loro prodotto interno lordo. È quindi necessario estendere il campo visivo alla considerazione degli andamenti del Mezzogiorno, con una particolare attenzione alla natura e all’entità delle politiche di coesione europea e all’applicazione che di esse verrà data dal nuovo governo.
Se esso non si indirizzerà a pioggia, come in passato, ma rafforzerà le esportazioni e la sostituzione di importazioni dall’esterno con prodotti locali, dal Sud potrebbe provenire un contributo positivo alla stabilità economica e sociale dell’intero Paese. Le crisi affrontate dall’Italia nel corso dei 150 anni della sua storia, che quest’anno celebriamo, testimoniano che i problemi italiani non covano nell’economia, ma nella società.

Fonte: Panorama/Economy del 29 dicembre 2011

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