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Cucchiani e le banche “Così le italiane sopravvivranno all’Eba”

Enrico Cucchiani è amministratore delegato di Banca Intesa San Paolo dal 22 dicembre. Cosa ha trovato? «Una banca ben patrimonializzata, con riserve adeguate, un buon livello di efficienza e un eccellente team manageriale». È al World Economic Forum e questa è la sua prima intervista nel nuovo ruolo.
Durante la gestione Passera, Intesa si è costruita un ruolo di ‘banca di sistema’, continuerà ad esserlo?
«Per dimensione e quote di mercato ha un ruolo importante nell’economia italiana. Ma non è solo una questione di dimensioni, Intesa San Paolo è importante per il contributo di competenze che può mettere al servizio della crescita e all’internazionalizzazione delle imprese»Lei ha fatto l’assicuratore per molti anni, arriva in banca nel momento più duro e nel quale la professione di banchiere è probabilmente la meno popolare del pianeta.
«Ho l’impressione che anche la professione di assicuratore non sia popolarissima, ingiustamente. Quanto ai tempi duri, lo sono per tutti. Il settore assicurativo italiano sta attraversando una fase delicata e di riconfigurazione, dobbiamo essere consapevoli che un sistema assicurativo nazionale robusto è cruciale perché le compagnie sono investitori istituzionali che assorbono quantità rilevanti di titoli pubblici».
Intesa ha già provveduto, ma le banche hanno un problema in più: i parametri di capitale. L’Abi ha criticato duramente l’Autorità bancaria europea che ha richiesto agli istituti europei 115 miliardi di euro di maggior capitale, qual è il suo giudizio?
«Quello che oggettivamente si può rilevare sono due cose: la prima è che per rispettare i coefficienti patrimoniali le banche sono costrette a fare aumenti di capitale nella situazione di mercato più sfavorevole, il che li rende difficili e penalizzanti per gli azionisti esistenti. La seconda è che la focalizzazione sui coefficienti patrimoniali può avere un effetto prociclico, il che vuol dire che in una fase in cui l’economia non cresce può accentuarne i problemi. Sistemi più flessibili potrebbero invece avere un effetto anticiclico, e quindi aiutare l’economia a ripartire».
Per esempio?
«Per esempio si potrebbero fissare criteri di accantonamento prudenziale quando la congiuntura è buona per utilizzarli quando invece è cattiva. Con un doppio effetto anticiclico: quello di raffreddare l’economia quando è a rischio bolle e quello di stimolarla quando ce n’è più bisogno. Un altro strumento flessibile il cui utilizzo potrebbe essere incoraggiato sono i ‘contingent convertible bonds’, una sorta di ‘assicurazione’ che remunera l’obbligazionista e che nel caso in cui qualcosa faccia scendere i requisiti patrimoniali della banca emittente sotto un determinato livello fa scattare automaticamente la conversione in azioni riportando il patrimonio al livello necessario».
Tra Basilea III e prescrizioni dell’Eba quella per i coefficienti di capitale è diventata quasi una ossessione. Ma davvero il capitale è così importante per garantire la stabilità del sistema?
«E’ importante, ma l’enfasi sui coefficienti patrimoniali finisce per distogliere l’attenzione da due aspetti forse ancora più importanti: uno è la liquidità, giacchè le banche semmai falliscono per problemi di liquidità più che per mancanza di capitale; l’altra è la qualità vera degli attivi. I sistemi di ponderazione degli attivi sulla base dei quali si definiscono i livelli di patrimonio richiesti non sono omogenei, variano da paese a paese attenuando la trasparenza e rendendo più difficili i raffronti. Quelli applicati in Italia sono particolarmente severi rispetto ad altri paesi europei».
Basilea III inoltre penalizza le banche commerciali, come sono quasi tutte quelle italiane.
«Lì c’è bisogno di una armonizzazione dell’interpretazione e dell’applicazione a livello globale. Applicare lo stesso trattamento a modelli di business, tipologie di banche e per certi versi anche paesi diversi potrebbe creare ingiuste penalizzazioni, per esempio alle banche dei paesi in via di sviluppo. Pensiamo ad una banca che fa microcredito: non ha i rischi sistemici delle banche universali ma potrebbe essere penalizzata nella sua atttività di sostegno allo sviluppo».
I regolatori chiedono più capitale, ma non solo è difficile trovarlo, negli anni che abbiamo davanti sarà anche molto difficile remunerarlo.
«In effetti un eccesso di capitale può determinare effetti opposti a quelli che ci si propone, perché per remunerare un capitale maggiore si può essere spinti a prendere rischi più elevati. In generale comunque il problema della remunerazione del capitale esiste, e in Italia in particolare perchè la redditività del sistema è più bassa del costo del capitale, il che distrugge valore».
Voi banchieri, che avete gli azionisti ai quali rispondere, come ve la caverete?
«Nel breve periodo la remunerazione andrà incontro ad ulteriori pressioni che derivano dalla contrazione dell’economia, la quale a sua volta incide sulla domanda di credito e sulla sua qualità. Il problema va comunque affrontato e le leve a disposizione sono le solite tre: operare in modo da assorbire meno capitale, il che vuol dire, se si vuole mantenere il sostegno all’economia, erogare meno credito diretto e intermediare di più, per esempio utilizzando maggiormente lo strumento delle cartolarizzazioni. La seconda leva è fare attività a più alto valore aggiunto e scarso assorbimento di capitale, vale a dire i servizi di advisory, e la terza è contenere i costi. La banca dovrà evolvere il suo modello di business verso una forma che richieda sportelli meno numerosi e più agili, ma questa è una trasformazione di medio periodo».
Il mercato del credito è fermo, in Italia se non un vero credit crunch c’è quanto meno uno stallo.
«Per quanto riguarda Intesa San Paolo non lo vedo, non abbiamo ridotto nulla e anzi continuiamo a offrire supporto alle imprese. A livello complessivo non posso però escluderlo, anche per effetto della pressione sui parametri di capitale: un modo per rispettarli è ridurre l’attivo, ovvero il credito. Per alcuni mesi poi c’è stato anche un problema di liquidità determinato dal blocco del mercato interbancario, con il finanziamento della Bce del dicembre scorso il problema si è fatto meno urgente».
Per imprese e famiglie il problema esiste ed è doppio, perchè oltre alla difficoltà di ottenere credito c’è anche l’aumento del suo costo.
«Il costo è determinato dallo spread, più sale quello si titoli di stato italiani più sale il costo della raccolta marginale delle banche. Ora però ci sono segnali di una inversione di tendenza».
Effetto Monti? Effetto Draghi?
«Tutti e due. L’operazione di finanziamento illimitato a tre anni all’uno per cento varata dalla Bce ha ridato liquidità al mercato, le banche hanno potuto ridare fiato al credito e investire in titoli di stato e questo ha avuto il suo effetto sugli spread a breve che hanno cominciato a ridursi. Non sarebbe bastato se il governo Monti non si fosse mosso rapidamente nella direzione giusta, rimettendo l’Italia al centro dei giochi: così facendo ha conquistato giorno dopo giorno la fiducia dei mercati, e questo si vede sulla lenta ma progressiva riduzione dei tassi sui titoli decennali».
Resta il problema dell’Eurozona, dell’incertezza sul suo futuro, che tiene lontani gli investitori soprattutto americani.
«Vedo segnali positivi. Il “fiscal compact” e l’accelerazione dell’operatività del Esm (il fondo salvastati) sono passi concreti e importanti il cui impatto sarà positivo. Bisognerà continuare questo percorso rafforzando i poteri delle istituzioni che intervengono sull’economia dell’eurozona e assicurandone il coordinamento. L’arrivo di tre personaggi di cultura e peso internazionale come Mario Monti, Mario Draghi e Christine Lagarde in posizioni che contribuiscono alla definizione dei temi di policy dell’Europa ha dato un’accelerazione notevole e positiva».

Fonte: Affari e Finanza del 29 gennaio 2012

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