• domenica , 22 Dicembre 2024

Crisi, sempre piu’ pentiti sulla terapia del rigore

Esiste un gran numero di appassionati con la granitica convinzione che l’astrologia sia una scienza, tanto da scriverci complessi trattati. Naturalmente per mantenere questa convinzione è necessario considerare la prova della realtà del tutto irrilevante, ossia ignorare che le volte che gli astrologi ci azzeccano sono probabilmente minori di quanto accadrebbe semplicemente per legge della probabilità. Ebbene, gli economisti e i leader politici che finora hanno imposto l’austerità come cura della crisi sono come quegli astrologi: dall’alto delle loro teorie e delle loro equazioni hanno continuato a predicare i sacrifici, chiudendo gli occhi e la mente sui risultati sempre più disastrosi delle loro ricette.
Ora, nell’ultimo mese, un barlume di consapevolezza comincia a farsi strada, partendo proprio da quello che è sempre stato il tempio dei guardiani di quelle teorie: il Fondo monetario internazionale.
Il capo economista Olivier Blanchard, infatti, nel World Economic Outlook reso noto l’8 ottobre scorso ha inserito un box in cui si esaminano una trentina di casi degli ultimi anni di paesi in difficoltà e gli effetti delle misure applicate, concludendo che si è sempre sbagliato a valutare l’impatto delle manovre di tagli e tasse. Ne hanno scritto il 12 ottobre il Financial Times e Stefano Fassina, responsabile economico del Pd (che ha lavorato per cinque anni al Fondo), sul suo blog sull’Huffington Post 1.
C’è innanzitutto da notare la cautela nel mettere in discussione l’ortodossia dominante. Ma come, ti accorgi che da anni si applicano politiche sbagliate e ci fai un box tecnico, invece di costruire tutto il rapporto attorno a questa rivelazione? Va comunque apprezzato che si sia arrivati a riconoscere l’errore, peraltro denunciato da anni da numerosi economisti di tutto il mondo. Un nome per tutti, quello di Paul Krugman, che l’ha scritto praticamente ogni giorno negli ultimi tre-quattro anni.
Alla resipiscenza del Fondo si è aggiunta, qualche giorno dopo, quella di un altro importante organismo: l’Ufficio inglese per la responsabilità del Budget, il corrispondente del Congressional Bodget Office americano: in quei paesi sono organismi indipendenti a valutare le politiche di bilancio, mentre da noi questo compito è affidato al ministero dell’Economia. Lo ha notato sul suo blog l’economista Gustavo Piga 2, un altro che da tempo combatte contro la “stupida austerità”. Anche gli inglesi ammettono di aver ampiamente sottovalutato gli effetti recessivi soprattutto dei tagli di spesa, tanto che in soli due anni hanno sbagliato le previsioni sulla crescita di ben il 5%. Possono consolarsi confrontandosi con l’Italia: da noi l’errore è del 3,6% per il solo 2012, sempre che a consuntivo non si scopra un ulteriore peggioramento.
Il succo di queste “scoperte” è che gli economisti pro-austerity hanno impostato le loro ricette nella convinzione che, per fare un esempio, se si tagliano le spese di 10 miliardi la contrazione conseguente del Pil sarà di 5 (questo sosteneva il Fondo). Ora si sono invece accorti che il Pil scende ben di più, in alcuni casi (come quello greco) addirittura 20 miliardi, cioè il doppio. Un errore drammatico che provoca la “sindrome di Achille e la tartaruga”: più tagli, più riduci la crescita, più i conti peggiorano invece di migliorare e gli obiettivi non si raggiungono mai.
Il problema di questa strada sbagliata è di tutta l’Europa, ma in Italia su questo punto siamo all’avanguardia. In troppi continuano a ripetere che il nostro problema più grosso è il debito, mentre il governo continua ad inseguire il feticcio del pareggio di bilancio e quindi, come con l’ultima manovra, soprattutto nella sua versione originaria, a drenare risorse da gettare nella fornace dei conti pubblici. Il vero problema invece è la crescita, la sola strada che può guidarci oltre la crisi, anche se con fatica, senza uccidere l’economia. E, in questa fase, la sola cosa che può stimolare la crescita è la domanda pubblica. Altrimenti il rischio concreto è di arrivare a deficit zero, attività economica zero.

Fonte: Affari e Finanza del 5 novembre 2012

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