• venerdì , 27 Dicembre 2024

Crisi, quanto deve cambiare la cultura dei negozi?

La fotografia dello stato di difficoltà del commercio italiano è fin troppo facile da scattare. I neri prevalgono nettamente sui bianchi e le cause sono altrettanto facilmente rintracciabili nel crollo dei consumi interni e nel pericolo di un ulteriore aumento dell’Iva.
Ma siccome non ci si può piangere addosso in eterno vale la pena tentare di costruire un ragionamento che guardi in avanti, che lavori nella prospettiva del superamento dell’anno zero del commercio. Da dove partire? Sicuramente da un elemento di discontinuità culturale, quello che deve cambiare tra gli operatori del settore è infatti l’approccio con il mercato. La vecchia relazione che si aveva con il business era semplificata, quasi automatica, standardizzata.
Le variabili erano la posizione, i prezzi praticati, la cortesia, l’assenza di concorrenza nei paraggi, la capacità di mettere su una bella vetrina. Ma quel mercato molto regolare, fidelizzato, prevedibile, purtroppo non esiste più. Agli storici dell’economia il compito di dirci se tutte le colpe ricadono sulla Grande Crisi oppure saremmo arrivati comunque allo stesso punto di oggi, magari con tempi più ritardati.
L’unica cosa che non è permessa (e consigliata) è però chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Il mondo del commercio è dunque cambiato velocemente. Noi italiani purtroppo non abbiamo una sufficiente cultura di quello che nel mondo degli affari si chiama retail (dettaglio) e così via via ci siamo fatti impartire lezioni dai francesi, dagli americani e persino dagli svedesi e dagli spagnoli.
Ci manca la cultura del consumatore, l’attenzione spasmodica ai mutamenti della domanda, degli stili di vita, dell’attenzione al servizio. Ci siamo stupiti quando nei supermercati si è cominciata a vendere l’insalata nei sacchetti, inizialmente non capivamo che il focus si era spostato dalla verdura al servizio.
Oggi ne siamo in qualche maniera diventati schiavi. Eppure anche lessicalmente la parola «dettaglio» ci indurrebbe alla cura dei particolari, a voler offrire un servizio perfetto. Purtroppo molto spesso non è così e il commercio appare culturalmente statico.
Pensa che il solo valore aggiunto risieda nella prossimità del negozio all’abitazione o all’ufficio del consumatore. La vicinanza resta sicuramente un punto a favore ma deve essere coniugato con altri fattori. Ad esempio, la logica della concentrazione dei punti di vendita della stessa merceologia nello stesso quartiere o nella stessa strada può essere un elemento di qualificazione, uno stimolo continuo a superarsi e a specializzarsi.
Eppure sono pochi i casi di questo tipo in Italia. E ancora: la flessibilità degli orari può essere giocata come elemento di marketing specie nelle aree metropolitane sfruttando la pausa pranzo oppure la sera nei circondari con ristoranti, cinema e teatri.
Un mercato nervoso e imprevedibile richiede anche una propensione alla rotazione delle merci offerte e dello stesso format distributivo, almeno dentro un perimetro relativamente omogeneo. Niente è per sempre e comunque. Una pagina tutta da scrivere è poi quella che riguarda l’e-commerce che in alcuni settori sta diventando il canale prevalente, si pensi ad esempio alla vendita dei pacchetti vacanze.
È chiaro che più si sottolineano gli aspetti di discontinuità più viene spontaneo sostenere le ragioni di un ricambio. La generazione dei nativi digitali sta cominciando a rivisitare l’artigianato con l’esperienza dei makers perché non può accadere qualcosa di simile nel commercio?
Spulciando tra i dati sull’apertura di partite Iva il settore fa ancora la parte del leone e, spesso per mancanza di alternative, attrae le/i trentenni. Smetteremo un giorno di considerarla una disgrazia e invece proveremo a viverla come un’occasione?
Molto di quanto detto finora dipende dalle associazioni di rappresentanza che sono chiamate anche loro alla discontinuità. Non si vive di sola lobby romana, occorre stare sul territorio e aiutare «l’evoluzione della specie commerciale» formando i quadri e offrendo servizi più avanzati. Tutto sommato basta volerlo.

Fonte: Corriere della Sera del 12 giugno 2013

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