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Crisi Banche: dalla Bundesbank un nuovo pericolo per le banche italiane

Crisi Banche: dalla Bundesbank un nuovo pericolo per le banche italiane

Matteo Renzi farebbe bene ad accelerare il suo appuntamento con Angela Merkel, previsto il 29 gennaio. Perché la vera ragione della tempesta perfetta che ha messo in ginocchio le banche italiane non sta nell’isteria collettiva, nella speculazione, nel crollo del petrolio, nel rallentamento della Cina. Ma sta in Germania, e a un indirizzo preciso: la Bundesbank. Non diciamo che la banca centrale tedesca ne sia il mandante, per carità, ma è da Francoforte che partono tutte le perplessità sul sistema bancario italiano, e dove stanno maturando proposte che puntano a mettere un cappio ai paesi con debito pubblico troppo alto come il nostro, per evitare che i meccanismi di salvataggio europei possano salvare i peccatori a spese dei virtuosi.

Andiamo con ordine. La preoccupazione della Bundesbank riguarda i rischi che le nostre banche si portano in pancia. Che non solo solo le sofferenze, cioè i prestiti che non verranno mai ripagati, il credito erogato a società fallite, le rate di mutui che da tempo non tornano in cassa. E non sono neanche le difficoltà del nostro governo a trovare un sistema di “bad bank” – dove appunto far convergere tutte le sofferenze che impiombano i bilanci degli istituti di credito – che non abbia l’aspetto di un aiuto di Stato e sia accettato da Bruxelles.

No: la vera ragione del ciclone che ha piegato indifferentemente banche blasonate e non, istituti ben capitalizzati e quelli un po’ più zoppicanti è un’altra: è la montagna di titoli del debito pubblico italiano che le banche hanno comprato in passato e che sono costrette a tenersi stretto.

Cosa c’entrano Bot e Cct? Lo svela un paper appena sfornato dal think tank che fa capo alla Luiss, la School of european political economy, che ha appena inaugurato un master, ma che soprattutto è animata da un manipolo di “Senior Fellow” di rango: Carlo Bastasin, Lorenzo Bini Smaghi, Franco Bruni, Marcello Messori, Stefano Micossi, Franco Passacantando, Fabrizio Saccomanni e Gianni Toniolo. I quali a questo paper hanno affidato il loro messaggio al governo, che dice in sostanza: attento Renzi, la tua politica di stimolo ha fatto ben poco, mentre non ti sei più preoccupato della crescita del debito, che è uno degli elementi più critici per la stabilità dell’euro-area. E se fino all’anno scorso la recessione faceva da scusante per non rientrare dal debito, quest’anno quell’alibi non vale più, la qual cosa ci potrebbe procure una procedura di infrazione.

A questo aspetto – il debito in crescita – se n’è aggiunto un altro: la perdita di leadership di Berlino sul fronte europeo. Che si è tradotta in un rompete le righe dal punto di vista della voglia di solidarietà. Cioè la voglia di condividere i rischi. E quindi è aumentata la pressione dei partner a far sì che chi ha problemi se li risolva da sé. Ed eccoci al punto: chi ha un debito troppo alto deve rafforzare la separazione tra rischio sovrano e rischio bancario.

Ma come, in pratica? E qui arriva la novità rivelata del paper: con “nuove regole che attribuiscano un esplicito coefficiente di rischiosità ai titoli pubblici dei paesi dell’euro-area”, scrive il rapporto, “costringendo le banche a non considerarli più come titoli privi di rischio. Sono inoltre già materia di discussione nuove regole che stabiliscano limiti precisi alla quantità di titoli sovrani di un singolo paese nel bilancio di ogni banca”.

C’è quindi a Francoforte chi lavora da tempo per ottenere i seguenti risultati: un rating di rischiosità da attribuire al debito dei diversi paesi europei, così da obbligare le banche a considerarli alla stregua di altri titoli a rischio nei propri bilanci. Inoltre, l’introduzione di regole che limitino la quantità di titoli di Stato che ciascuna banca può detenere. Un terremoto per tutti gli istituti europei, ma in particolar modo per i nostri, che hanno sempre aiutato lo Stato a piazzare il suo debito comprando a man bassa e mettendolo nei caveau.

Con quale argomento la Bundesbank potrà convincere i suoi partner a fare quello che chiede? Semplice. Tutti i sistemi-paracadute che devono garantire la sicurezza collettiva del sistema del credito non partiranno. Rinviati. Finché le banche non si saranno sgravate dai titoli pubblici in eccesso.

Rinviati tutti a cominciare dall’assicurazione comune dei depositi bancari europei, che è quel sistema che mutualizza i rischi: i sistemi bancari europei dovrebbero mettere in comune le risorse necessarie a finanziare il fondo di assicurazione, per cui se una banca italiana fallisce, i soldi per rimborsare i suoi depositanti vengono presi dai contributi versati dalle banche di tutti gli altri paesi dell’area euro. Bene: “un paese potrebbe lasciar fallire le proprie banche e le proprie imprese, così da scaricare parte degli oneri sull’assicurazione dei depositi finanziata da contribuenti stranieri”, così gli autori spiegano le paure tedesche (e non solo) senza tanti giri di parole. Quindi per ora non se ne parla.

Previdenti, i tedeschi immaginano insomma che una crisi del debito di un paese membro – come quella che abbiamo già visto in Grecia e non solo – potrebbe sempre capitare. Se si fa quello che la Bundesbank chiede, a quel punto ristrutturare quel debito non coinvolgerebbe anche le banche del paese, considerate la parte del sistema da proteggere.

Abbiamo letto bene: ristrutturare il debito? Certo: “a completamento di tale decentramento del rischio sovrano, meccanismi automatici di ristrutturazione del debito, attraverso l’allungamento delle scadenze dei titoli pubblici, verrebbero disposti e fatti valere ogni qual volta un paese perdesse accesso al mercato per finanziare il proprio debito pubblico e fosse quindi costretto a rivolgersi al ‘Meccanismo europeo di stabilità’ per ottenere assistenza finanziaria”.

Insomma l’assistenza del meccanismo europeo pensato per risolvere le crisi, si pagherebbe prima con l’imposizione “automatica” (e quindi non materia di trattativa) di una ristrutturazione del debito.

A questo punto la morale del messaggio dei “saggi” della School of european political economy è che siamo fragili, più di quello che crediamo. E che i nostri partner, che non si fidano più l’uno dell’altro, tantomeno si fidano di noi. Ma è proprio per questo che l’Italia ha solo da perdere dalla crisi di sfiducia che sta attraversando l’Unione: la coesione, viceversa, è la nostra ciambella di salvataggio, concludono gli autori del think thank.

Gufi? Disfattisti? Di certo la guasconeria di un’Italia che non prende ordini dall’Europa ne esce malconcia. Ma la partita, come sempre, è aperta.

Fonte: L'Huffington Post - 21 gennaio 2016

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