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Cosi’ tasse e burocrazia schiacciano i Piccoli

«L’ultima volta che avevo visto tanta gente era stato al concerto di Gianni Morandi». La battuta del ministro Flavio Zanonato è servita a far calare la tensione tra palco e platea ma gli oltre mille imprenditori che la sera di lunedì 28 ottobre chiamati dalla Confartigianato si sono presentati in assemblea a Busto Arsizio non avevano tanta voglia di scherzare.
Sono passati cinque lunghi anni dalle assemblee degli artigiani ribelli di Jerago con Onago, Besnate e Vergiate e i problemi sono ancora tutti lì. E stavolta c’è la tentazione di farla finita e trasferirsi nella vicina Svizzera. Davanti al ministro veneto, che però rappresentava ai loro occhi il potere romano, si è parato un popolo che viene blandito da tutti in campagna elettorale ma dimenticato subito dopo.
La politica non c’entra, il leghismo non si sta rivelando un sentimento indelebile e comunque la distanza tra le ragioni dell’impresa e l’operato della pubblica amministrazione sembra incolmabile. Come ha ben sintetizzato il giovane Dario Romanò, 34 anni, produttore di macchine per la gelateria: «Devo lavorare ancora 30 anni e non voglio passare questo tempo ad aspettare che cambi qualcosa».
Del resto ottobre 2013 per le piccole imprese italiane si è rivelato un mese economicamente freddo. La ripresa, annunciata dal ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni e avallata da autorevoli banchieri come Federico Ghizzoni (Unicredit), i mille di Busto non l’hanno vista.
Gli ordini sono fermi, i consumi privati non sono ripartiti e gli investimenti sono al palo (anzi dal 2008 ad oggi sono diminuiti del 26,2%). Dalla piccola azienda meccanica fino al barbiere tutti si lamentano e sostengono di non avere più ossigeno. Prendiamo il caso della filiera dell’edilizia quella da cui dipende il fatturato di una buona fetta delle piccole imprese italiane.
Ebbene il ciclo del mattone sconta un trend ultra-negativo che parte da ancor prima della crisi americana dei subprime: si sono persi 690 mila posti di lavoro, oltre 11 mila imprese edili sono fallite e in base ai dati dell’Ance l’acquisto di nuove abitazioni ha subito un crollo di 74 miliardi rispetto a 6 anni fa.
Qualche speranza per i Piccoli arriva dai cosiddetti eco-bonus, gli sconti fiscali che il governo ha adottato per dare ossigeno all’industria del mattone come a quella dei mobili, si confida che possano servire a rimettere in moto un po’ di domanda privata dal basso grazie alla possibilità data alle famiglie di usufruire di facilitazioni nelle ristrutturazione delle proprie abitazioni.
Anche il parziale superamento del patto di stabilità interno, che vincola la spesa dei Comuni virtuosi, dovrebbe liberare risorse per 1 miliardo di euro che potrebbero servire a finanziare tutte le piccole opere che a livello locale sono state deliberate ma non cantierate o addirittura la cui realizzazione si è fermata a metà.
Il settore edile comunque sta pagando anni di sovraproduzione con interi quartieri edificati che non si riescono a vendere e per averne l’evidenza basta fare un giro nelle grandi città o percorrere il tratto che porta da Roma all’aeroporto di Fiumicino.
Le abitazioni vuote ormai sono tante ma le famiglie non sono in condizione di comprarle anche perché si tratta di edilizia privata costruita su standard di prezzo medio-alto e oggi non si incontra con la domanda che viene da fasce a basso reddito, come le giovani coppie o gli immigrati regolarizzati, per i quali l’offerta più giusta sarebbe l’housing sociale.
CHI SOFFRE E CHI ESPORTA.
Al di là della filiera dell’edilizia anche i consumi di altri settori vitali per la piccola impresa non si sono rimessi in moto. Gli italiani hanno ridimensionato il proprio budget di spesa chi per effettiva necessità e chi invece solo perché psicologicamente condizionato ma i numeri delle vendite di auto, frigoriferi, lavatrici e arredo, per stare ai beni durevoli di maggiore impatto, sono un segnale non incoraggiante e che ha ricadute pesantissime sulla catena dei fornitori.
Gli operatori che non sanno più a quale santo votarsi ora sperano in una sorta di «effetto sostituzione» ovvero che le famiglie superino le remore a spendere di fronte all’obiettiva longevità di una vettura o di un elettrodomestico, è chiaro però che anche se questo rimbalzo dovesse verificarsi non si potrebbe parlare di una ripresa bensì solo di un momentaneo sollievo.
Fortunatamente tutti gli imprenditori che possono si sono gettati sull’export direttamente o come fornitori e ciò sta avvenendo a tutti i livelli e verso tutti i Paesi, non solo quelli europei o di tradizionale sbocco. Dai dati elaborati dall’ufficio studi Cna la presenza delle piccole all’estero è addirittura più elevata delle grandi in Medio Oriente e Asia, meno solo negli Usa e in America Latina.
Gli imprenditori di taglia mignon che coraggiosamente gettano il cuore oltre l’ostacolo delle frontiere nazionali non hanno però la percezione di far parte di un sistema, in fondo stanno rinverdendo la vecchia ed epica tradizione dell’italiano con la valigetta ovvero dell’iniziativa individuale e un po’ casuale che un tempo è servita a fare le fortune di molti distretti.
La tendenza ad esportare sta crescendo esponenzialmente ma le associazioni di rappresentanza dei Piccoli lamentano che il sistema di promozione italiano sia tarato sulle esigenze delle grandi imprese e ciò vale per l’Ice, la Simest e la Sace. Ci sarebbe bisogno di inventare un modello nuovo che accompagnasse anche le piccole, magari aggregate territorialmente e dotate di un marchio riconoscibile.
LE NICCHIE DI MERCATO E LE AGGREGAZIONI.
Ed è proprio la mancata integrazione di strumenti e politiche per lo sviluppo a compromettere la ripartenza dei territori. «Il Varesotto è a rischio forte di deindustrializzazione e non posso che alzare il livello di preoccupazione anche per gli imprenditori di piccole imprese che vivono di subfornitura o che alimentano un mercato in cui operano imprese più strutturate.
Le grandi aziende devono poter contare su un tessuto di servizi, produzioni flessibili e innovazione a basso costo che sola la piccola impresa può garantire – dice Mauro Colombo, direttore della Confartigianato di Varese e organizzatore dell’assemblea di Busto Arsizio – Ci deve essere dunque nei territori uno snodo in cui vengono messe a confronto la capacità attrattiva e gli strumenti che facilitano l’impresa. Purtroppo le amministrazioni locali ci ostacolano con l’applicazione iniqua della Tares o con provvedimenti sugli insediamenti produttivi assurdi o insostenibili».
Dalla Lombardia alla Toscana. «Anche a Prato – racconta lo scrittore e deputato Edoardo Nesi – c’è chi è stato capace di innovare e, ad esempio, di produrre un cachemire lavorato e tinto in maniera particolare. Di conseguenza è capace di esportare e fare anche dei buoni margini ma la nicchia è un luogo perfetto per stare in pochi.
E se vogliamo difendere l’occupazione le nicchie non bastano». Con la collaborazione della Regione Lazio e del ministero dello Sviluppo economico, utilizzando la legislazione sulle cosiddette «aree di crisi complessa» e i fondi strutturali, è stato varato nel nord della provincia di Frosinone addirittura un piano di reindustrializzazione e i primi riscontri sono stati positivi con 160 manifestazioni di interesse.
Bisognerà aspettare fine anno per vedere se si sarà riusciti ad attrarre delle aziende sane e dotate di una buona prospettiva di mercato, intanto l’esperimento fa notizia.
Torniamo però alle osservazioni di Nesi a proposito di Prato e della debolezza delle strategie di nicchia perché ci portano a una prima conclusione: la perdurante difficoltà di far crescere la dimensione delle piccole imprese. Le reti anche se lento pede si stanno affermando come una via dolce all’aggregazione e anche in regioni non particolarmente dinamiche come l’Abruzzo si segnalano fermenti nuovi, i numeri però sono ancora troppo bassi.
Ad esempio 700 reti di impresa per il Veneto sono ancora troppo poche rispetto alla velocità della crisi e al dinamismo di quella regione. Osserva l’imprenditore padovano Alberto Baban, candidato alla presidenza della piccola impresa di Confindustria:«Proprio perché non si può non puntare sull’export per avere un fatturato equilibrato la taglia delle nostre aziende deve crescere. Chi ha trovato la sua nicchia ed è capace di difenderla forse non ne ha bisogno ma più si è generalisti più occorre aumentare la dimensione e in parallelo cominciare a introdurre in azienda qualche manager. Una volta potevano essere considerate strategie lungimiranti oggi sono scelte necessarie per difendersi sul mercato».
Le reti di impresa non sono l’unico strumento per accrescere la taglia e si registra infatti un significativo aumento di acquisizioni, chi ha buone prospettive e un business plan credibile non si fa sfuggire le occasioni che si presentano visto che i venditori non mancano.
Ci sarebbe però bisogno di una maggiore assistenza a questo processo da parte del sistema bancario e più in generale di strumenti che incentivino la voglia di crescere. Con il governo Monti è stato varato l’Ace, un meccanismo che premiava la patrimonializzazione delle imprese: ha funzionato poco ma non è il caso di buttarlo assieme all’acqua sporca perché questo è il momento giusto per rimuovere vecchie remore verso le aggregazioni.
Il Fondo italiano di investimento sta intensificando la sua azione di reclutamento di Piccoli sui quali scommettere e la Borsa di Milano con il programma Elite ha provato fare della buona pedagogia finanziaria mentre i meccanismi premiali (un rating migliore) annunciati dalle banche per chi creava reti d’impresa sono rimasti nei cassetti dei direttori di delle filiali e non sono decollati.
IL FRONTE DEL CREDITO E I PAGAMENTI ARRETRATI.
E’ chiaro, del resto, come quello del credito rimanga un fronte infuocato. Dal 2008 i prestiti alle imprese sono diminuiti di 100 miliardi e il costo del denaro è sempre elevato (a maggio il tasso medio per i prestiti fino a 1 milione di euro segnava il 4,36%), per di più dei 900 miliardi erogati al sistema delle imprese ne arrivano all’artigianato sì e no 50.
«Eppure in cinque anni di crisi il rischio artigiano è passato solo dal 6 al 10% e se ci sono crediti inesigibili che imballano le banche bisogna guardare ai grandi nomi e non in basso – obietta Sergio Silvestrini, segretario generale della Cna – Di sicuro sta capitando che i capannoni dati in garanzia oggi non valgono più niente e l’unica cosa che le banche riconoscono sono soldi e titoli».
Il clima è questo e di conseguenza la recentissima dichiarazione del direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, («Spero che nell’erogazione del credito si tenga conto del merito ma non sono sicuro che sia così») è stata salutata dai Silvestrini e dai Colombo come il riconoscimento di una verità, anche se tardivo.
«Bisogna che le banche aumentino la loro capacità di fare una intelligente selezione del credito e che la struttura finanziaria italiana sia meno dipendente dal credito» ha aggiunto Rossi. E commenta Baban: «Non credo che sia utile ragionare per corporazioni, le imprese contro le banche ma mi aspetto che la selezione del credito faccia un salto di qualità. Una volta per concedere i fidi ci si basava sul pregresso, ora si deve entrare nel merito dei progetti e dei piani di business. In cambio le aziende devono raccontarsi e soprattutto garantire trasparenza».
In attesa di una evoluzione dei rapporti banca-impresa qualcosa in materia di liquidità sta entrando in circolo grazie ai pagamenti degli arretrati della pubblica amministrazione. Secondo il ministero dell’Economia l’erogato è arrivato a 13,8 miliardi, una cifra bassa rispetto ai 40 miliardi che sono preventivati da mettere in mano alle amministrazioni.
Doveva nel frattempo essere esaurita la ricognizione totale sui debiti della P.a. che la Confindustria già al tempo di Emma Marcegaglia aveva misurato in 60 miliardi e che successivamente secondo valutazioni della Banca d’Italia erano lievitati a 90 miliardi. E’ incredibile ma ancora non sappiamo con certezza quale sia il numero esatto, le cifre ballano e un tentativo del ministero dell’Economia di produrre una stima precisa è miseramente fallito nei giorni scorsi.
Si sospetta che la pubblica amministrazione abbia ricevuto servizi non immessi in bilancio e questa incertezza sta creando ulteriore sconcerto. In più non si sa se i vecchi vizi si stiano riproducendo, se in sostanza gli enti che contraggono nuovi debiti di fornitura li pagano o in qualche maniera ne approfittino per mettersi in coda e aspettare.
In questi mesi è andato avanti anche un altro fenomeno che è quello dei mancati pagamenti tra privati che ormai oltrepassano costantemente i 60 giorni, c’è difficoltà a intervenire dall’alto intanto però è diventato un costume corrente.
NOI ABBIAMO TAGLIATO, LO STATO NO E LE TASSE NEPPURE.
Si parla spesso della capacità della grandi imprese di ristrutturarsi, e l’economista Innocenzo Cipolletta l’ha ben documentata, ma il fenomeno ha coinvolto anche le piccole. Tutti hanno ridotto i costi, chi ha tagliato le spese di rappresentanza chi il personale, tutte sono diventate slim (snelle) come richiede il credo toyotista, sprechi se ce n’erano oggi sono stati ridotti a zero.
Ma sui costi esterni all’azienda resta moltissimo da fare e se i grandi – vedi Electrolux e Indesit – hanno a che dire sul costo del lavoro non paragonabile a quello polacco, i Piccoli hanno altri problemi. Gli energivori, come le piccole fonderie, ad esempio soffrono enormemente il costo dell’energia oltre al fatto che ci vogliono 155 giorni per un allacciamento mentre in Austria 23 giorni e in Francia 79. La seconda voce di costo riguarda la gestione burocratica e amministrativa.
Spiega Silvestrini: «C’è scontro tra un sistema privato che si è dovuto ristrutturare e i costi burocratici che non sono calati, tutto è rimasto come prima. Stato e utility sono rimasti gli stessi di cinque anni fa. Quando hai a che fare con la pubblica amministrazione in termini di servizi, allaccio o assunzione di un apprendista impazzisci».
Non c’è la percezione di un miglioramento, anzi come ha denunciato la Confartigianato veneta accade che l’Inps chieda indietro gli incentivi concessi alle piccole imprese per l’assunzione di lavoratori di aziende in crisi, una normativa che è operativa da 20 anni! Oppure, come documentato da un dossier della Cna che ha fatto scalpore, siano ben 12 le stazioni della via Crucis per assumere un apprendista.
Stando così le cose si capisce benissimo l’offensiva di marketing territoriale di svizzeri e carinziani che vogliono attirare le nostre aziende lombarde e nordestine. La pressione fiscale nel 2012 da noi ha toccato il massimo dal 200 a 44%, le previsioni a fine 2013 parlano di un 44,3%. In seguito scenderà ma nel 2017 sarà ancora superiore al 2009.
A confrontare i dati forniti a Busto Arsizio dagli organizzatori c’è da urlare: per pagare le tasse un imprenditore austriaco deve lavorare 170 giorni su 365, un francese 132, uno svizzero 63 e un italiano ben 269 ! Per avviare un’impresa da noi servono 78 adempimenti e circa 40 giorni, risultato: un elettricista con quattro dipendenti spende 1.420 euro per partire e deve compilare 350 fogli per essere in regola con le norme sulla sicurezza.
Il guaio è che lo strumento che avevamo individuato per affrontare le disparità più penalizzanti, il federalismo fiscale, si è rivelato un boomerang. Spiega il confindustriale Baban: «Con il senno di poi il federalismo fiscale appare un’invenzione perversa.
Gli enti locali hanno capito che avevano via libera sulle addizionali e hanno pestato duro. Il guaio è che tutta l’amministrazione adotta provvedimenti con un orizzonte di pochi mesi e le imprese invece hanno bisogno di programmare. Anche il governo ha lo sguardo corto e si chiede se mangerà o meno il panettone, ma così non si va da nessuna parte».

Fonte: Corriere della Sera del 4 novembre 2013

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