I dati parlano chiaro: il Pil italiano cresce poco (0,2% l’anno tra il 2000 e il 2009), e cresce meno di quello dei paesi concorrenti. Anche eliminando l’effetto recessione il quadro non cambia: 1,2% l’anno tra il 2000 e il 2008 contro l’1,9% della Francia e l’1,4% della Germania.
Il dato è ancora peggiore se misurato pro capite: il prodotto per abitante è calato dello 0,5% all’anno, tra il 2000 e il 2009. All’origine di questa frenata c’è l’andamento della produttività (vedere grafico): il prodotto ottenuto per ogni unità di fattore produttivo (lavoro e capitale) è cresciuto molto meno di quello degli altri paesi.
Il ritardo accumulato dall’Italia negli ultimi due decenni è sbalorditivo, al punto che in varie sedi sono stati avanzati dei dubbi sulle modalità di misurazione. Ma l’utilizzo di tecniche statistiche più sofisticate può portare a qualche decimo di punto di miglioramento. E la realtà di fondo non cambierebbe.
Come si spiega allora questo rallentamento? Una chiave di lettura costringe ad andare piuttosto indietro nel tempo. Negli anni 70 e 80 le imprese si sono trovate a fronteggiare un elevato costo del lavoro, gonfiato dall’inflazione e dal potere contrattuale del sindacato. Si sono ristrutturate investendo molto in automazione e sostituendo lavoro con capitale, cioè uomini con macchine.
«All’inizio degli anni 90 racconta l’economista Innocenzo Cipolletta, allora direttore generale della Confindustria il prodotto per addetto, la produttività italiana, era superiore a quella della media europea. Imprenditori e sindacati si sono chiesti come si poteva utilizzare quella situazione per abbassare il costo del lavoro e per aumentare l’occupazione. Si è avviato così il processo che ha portato prima agli accordi governo-imprese-sindacati come quello del 1993, poi alle riforme che hanno introdotto la flessibilità del mercato del lavoro. Da allora è iniziata la sostituzione di capitale con lavoro: l’occupazione è aumentata e, di conseguenza, la produttività è diminuita».
Ma quello che sulle prime poteva apparire come un “ritorno alla normalità” si è trasformato in un “eccesso di reazione”. Favorito anche dalla presenza di economia sommersa, parte della quale si è messa in regola, e di immigrati a basso costo e bassa qualificazione, pronti ad accettare qualsiasi lavoro.
Numerosi studi hanno fatto vedere, peraltro, che anche la produttività del capitale ha fatto peggio di quella dei paesi concorrenti. Quasi che le imprese, negli ultimi anni, si fossero “imbottite” di fattori produttivi, capitale e lavoro, per produrre poco. Persino quella che gli economisti chiamano produttività totale dei fattori, utilizzata come “residuo” e destinata a misurare la capacità dell’impresa di mettere insieme i fattori produttivi o di produrre in modo efficiente, è crollata negli ultimi 20 anni.
Secondo la Banca d’Italia, che ha dedicato alla situazione del sistema produttivo italiano un importante lavoro di ricerca nella primavera del 2009, il rallentamento della produttività dipende da fattori strutturali del sistema italiano: la ridotta dimensione delle imprese, la loro governance, l’insufficiente ricorso alle nuove tecnologie, la carenza di capitale umano, la scarsa concorrenza su alcuni mercati, l’inadeguata dotazione di infrastrutture, l’inefficienza del sistema giudiziario, le frequenti modifiche dei regimi fiscali. Tutti fattori che complicano la vita di chi deve fare impresa e che riducono l’efficienza complessiva.
Secondo le associazioni degli imprenditori i problemi principali sono le relazioni industriali (dal modello contrattuale alla gestione della conflittualità) e i vincoli burocratici.
Ma se la produttività è tanto bassa e la competitività internazionale dei prodotti italiani si riduce come fanno le imprese a resistere e a realizzare performance apprezzabili anche sui mercati esteri dove la concorrenza è più agguerrita? La risposta non è semplice.
Molte imprese hanno saputo reagire. Hanno investito in nuovi prodotti, su nuovi mercati, si sono date una nuova organizzazione.I loro indici di produttività e di competitività hanno battuto la media.
Ma per molte altre imprese la risposta bisogna cercarla proprio in quella struttura produttiva tanto frammentata che è la peculiarità italiana. Piccole e piccolissime aziende ricorrono a tutte le declinazioni della “flessibilità” per sopravvivere. Gli esperti segnalano per esempio che molte, per prudenza, potrebbero aver allineato quanto dichiarano al fisco e quanto segnalano all’Istat. Con l’obiettivo di non rischiare accertamenti sull’Irap o di non vedersi contestare una dichiarazione fatta sulla base degli studi di settore. Tutto questo fa calare il valore aggiunto “emerso” e quindi la produttività. L’amministrazione finanziaria ha segnalato anche che la sempre più diffusa internazionalizzazione permette di utilizzare i prezzi di trasferimento per accrescere i costi dei beni intermedi e contenere il valore aggiunto prodotto in Italia. Insomma anche le “frodi carosello”, sebbene migliorino i conti, abbassano la produttività.
Così si può far ripartire la produttività
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