• domenica , 24 Novembre 2024

Cosi’ nell’Italia della crisi e’ sparito il banchiere di sistema

Salotti della finanza svaporati, oggi la politica guarda solo a Draghi.
L’incertezza e l’instabilità gettano un’ombra sulla ripresa italiana, ha detto Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. “Le scelte sbagliate valgono un miliardo e mezzo in più nel costo dei tassi di interesse”, ha ribadito ieri il presidente del Consiglio, Enrico Letta, riferendosi ai “costi” dell’instabilità politica. Incertezza e instabilità della congiuntura economica (persino i dati non sono sicuri) e soprattutto del quadro politico. Entrambe sono aggravate dalla sensazione che tutto cammini sulle sabbie mobili. Per la prima volta in molto tempo, il sistema non ha un centro attorno al quale fare e disfare la trama. E’ accaduto anche nei primi anni 90, quando è finito il modello basato sulla triade protezionismo, impresa pubblica a guida politica, capitalismo privato sotto la tutela di Enrico Cuccia. Solo che allora non si è creato un vuoto, perché il bastone del comando è passato al “banchiere di sistema”. Le grandi banche, messe da Amato e Ciampi nelle mani delle Fondazioni che avevano assorbito i ricchi patrimoni delle aziende a capitale pubblico, dovevano sostituirsi allo stato e, in alcuni casi, anche ai capitalisti privi di capitali. All’avvento dell’euro, così, erano emersi alcuni poli. A Milano il Credito Italiano, guidato da Alessandro Profumo, e la Banca Intesa di Giovanni Bazoli, l’uno laico e l’altro cattolico, entrambi in competizione con la Mediobanca passata nelle mani di Vincenzo Maranghi. A Roma era decollato Cesare Geronzi con la sua Capitalia, che faceva la spola tra le due rive del Tevere, tra i palazzi della politica e i “palazzinari”, arrivando fino a Silvio Berlusconi il quale, pur essendo stramilanese, nell’alta finanza egemonizzata da Cuccia aveva trovato sospetto e ostilità. Non era un equilibrio stabile. Anzi.
Il travolgente successo di Berlusconi alle elezioni del 2001 accelera un riposizionamento cominciato già con l’attacco della Fiat post Romiti a Edison, santuario di Mediobanca. Due anni dopo, è l’asse tra Profumo e Geronzi a sfidare Maranghi e ribaltare gli equilibri nella banca d’affari e poi nelle Assicurazioni Generali. Mentre il governatore Antonio Fazio che, refrattario alle avventure finanziarie, aveva favorito una strategia di fusioni su basi regionali, sostiene le scalate a Bnl e ad Antonveneta in nome dell’italianità. Tra l’aspirazione regolatoria di Via Nazionale e l’ambizione di banchieri ricchi di quattrini e di energie, il primo motore non è affatto immobile.
Siamo nel 2005. Un anno dopo, le elezioni riportano Romano Prodi a Palazzo Chigi e il banchiere di sistema cambia il pelo ma non il vizio. Torna al centro Bazoli che di Prodi era stato il mentore dieci anni prima spingendolo a scendere in politica per candidarsi contro Berlusconi. La nuova vittoria prodiana si accompagna all’arrivo in Banca d’Italia di Mario Draghi che lancia subito un segnale di rottura in senso mercatista. Niente più autorizzazione ex ante a fusioni e acquisizioni, la vigilanza si basa su parametri tecnici (solidità, efficienza, patrimonio). Draghi negli anni 90 ha guidato le privatizzazioni. Con Ciampi da un lato e Fazio dall’altro, ha contribuito a mettere in movimento “la foresta pietrificata”. Ma l’Italia non ha ancora una banca di taglia davvero internazionale. E’ il momento del dualismo Geronzi-Bazoli, del loro accordo più o meno esplicito che fa nascere due grandi aggregazioni: da un lato Unicredit-Capitalia sotto la guida di Profumo, dall’altro Intesa-Sanpaolo presieduta da Bazoli e gestita da Corrado Passera. In questo scenario matura anche la hubris del Monte dei Paschi di Siena che porta Giuseppe Mussari a comprare Antonveneta senza avere i soldi per pagarla. Geronzi va a Mediobanca sulla poltrona di Cuccia entrando nel sancta sanctorum milanese. Di lì passa a Generali e si comincia a ragionare sul progetto di fusione tra la banca d’affari, la compagnia di assicurazioni e Unicredit, creando un campione della bancassurance con forte insediamento nell’Europa centrale. Strategia troppo ambiziosa? La crisi farà saltare tutto, mettendo alle corde proprio la banca di Profumo. E minando l’intero sistema creditizio che evita nazionalizzazioni o interventi dello stato, ma resta paralizzato. Finché la situazione non precipita, dopo la crisi greca, e diventa ingestibile nel 2011, quando le banche diffidano l’una dell’altra, non si prestano denaro e finiscono a secco.
Con la battaglia sui debiti sovrani, il punto di riferimento, se non proprio il centro ordinatore, si sposta fuori dall’Italia, alla Banca centrale europea, dove Draghi – che nel frattempo è arrivato nel 2011 a Francoforte – lancia un maxi prestito pari a mille miliardi di euro. Un quarto circa finisce alle banche italiane, ma serve per lo più a comprare titoli di stato venduti dai tedeschi, dai francesi e dagli svizzeri. Il governo dell’economia si riduce a gestire lo spread, cioè il differenziale di rendimento tra Bund tedeschi e Bond italiani, con tagli e tasse. Intanto, si vanno sciogliendo i lacci che un tempo tenevano insieme la finanza del nord. Legami spesso perversi e che ogni buon liberista avrebbe voluto spezzare già da molto tempo. Invece, ancora una volta il processo avviene senza che maturino alternative, per consunzione.
Geronzi è stato fatto fuori dalle Generali nell’aprile del 2011, l’annus horribilis, all’insegna del rinnovamento che, in realtà, avverrà due anni dopo, con Mario Greco che decide di uscire dai patti di sindacato. Salta il gruppo Ligresti, rischiando di trascinare con sé anche l’intera Mediobanca esposta per oltre un miliardo di euro. S’avvia, così, un effetto domino che interessa in modo particolare la Rcs perché nel frattempo Via Solferino è diventata il secondo salotto buono, dopo Piazzetta Cuccia. E’ la Fiat a dare la spallata, altro che banchieri di sistema. Bazoli prova a usare le sue doti di autorevole mediatore, ma non convince Della Valle, Generali si tira fuori, soci storici portati da Mediobanca si defilano. Il professore questa volta gioca di rimessa. Vanno a vuoto anche alcune operazioni politiche a lui gradite, come la candidatura di Umberto Ambrosoli (sostenuto da Partito democratico e centristi) alla guida della regione Lombardia. I tempi di Prodi sono ormai lontani.
S’indebolisce pure la posizione di un altro uomo chiave, Giuseppe Guzzetti, l’alleato di ferro di Bazoli, azionista di rilievo di Intesa con la Cariplo. La crisi ha logorato le Fondazioni delle quali è il leader indiscusso, mentre il crac del Monte dei Paschi ha messo in discussione il modello sul quale l’intero sistema bancario italiano si era basato con la riforma Amato-Ciampi. Chi farà adesso da stanza di compensazione? Si potrebbe dire che non ce n’è bisogno, basta il mercato. Ma negli altri paesi la banca e la finanza non sono affatto appese nel vuoto. In Francia fanno perno su Bercy, alias il ministero delle Finanze, e sul triangolo Axa-Bnp-Agricole. Deutsche Bank conferma la propria egemonia, in patria e non solo, sia per i legami con l’industria (Daimler) sia per il potere di influenzare il mercato, compreso quello dei debiti sovrani. In Spagna nessuno osa sfidare don Botin e il Santander. A Washington, poi, c’è una clearing house economico-politica: Fed e Tesoro hanno salvato, regolato e ristrutturato l’intero sistema tra il 2008 e il 2009 (rivelatrici le memorie del segretario al Tesoro Hank Paulson diventate un ottimo docu-film) negoziando con le potenti commissioni finanziarie del Congresso. Nostalgia del regolatore perduto? Ridateci il bancocentrismo? No, ma ora siamo in quella terra di nessuno che si crea quando il vecchio muore e il nuovo non è ancora nato. Anzi, per la verità non è stato ancora nemmeno concepito.

Fonte: Il Foglio del 12 settembre 2013

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