di Franco Debenedetti
Misure fiscali per l’economia digitale». Non inganni quel «per»: non sta al posto di «a favore di», e neppure di «riguardo a». Sta per «su», che, come ogni tassa, sappiamo equivalere a «contro». Fin dal titolo, l’emendamento 88.0.1 alla legge di bilancio approvato domenica dalla commissione Bilancio del Senato, con cui viene introdotta quella comunemente chiamata Web-tax, denuncia l’equivoco ideologico da cui nasce, e il modo tortuoso in cui si articola.
Finché è viva l’attenzione, conviene chiarire l’uno e denunciare l’altra, sperando che una vivace discussione valga a far respingere il provvedimento quando tra breve verrà presentato in aula, prima al Senato e poi alla Camera.
In estrema sintesi. Oggetto del provvedimento sono “le prestazioni di servizi effettuati tramite mezzi elettronici” effettuate da soggetti “non residenti senza stabile organizzazione nel territorio nazionale”, che raggiungano un valore non inferiore a 1,5 milioni di € in sei mesi. “Per” (sic) esse si introduce una nuova tassa del 6% sul fatturato: la tassa è a carico dei “soggetti che effettuano la prestazione”, ad esigerla è la banca che dovrà trattenerla dall’importo delle fatture con obbligo di rivalersi sul percettore dei corrispettivi.
Si citano solo di passaggio le critiche formali. Rischio di indeterminatezza nella definizione sia dell’oggetto sia della stabile organizzazione. Problemi per le banche: a cui vien fatto obbligo di sorveglianza sulle transazioni mentre esse conoscono solo l’IBAN del beneficiario del pagamento, non sanno se è persona fisica o giuridica, perfino se è web company. Riduzione del margine per le Pmi italiane che usano market piace stranieri per vendere i loro prodotti. Possibili discriminazioni per soggetti residenti in altri paesi europei. E, venendo al sodo, chi finirà per pagare la tassa: perché, trattandosi di un’imposta sui ricavi, e non da prodotti standard ma da servizi personalizzati, essa verrà presto ribaltata sui clienti. Quindi non è una tassa sui colossi del web, ma sulle transazioni, che aumenta il costo dei servizi dell’economia digitale “per”(sic) le nostre aziende.
Perché? Il Governo ha dato parere favorevole all’emendamento: quali obbiettivi vuole raggiungere? Vuole procurarsi un’altra fonte di gettito, magari per pagare proprio gli incentivi per Industria 4.0 oppure per la banda larga? L’Italia ha sostenuto che la tassazione del digitale ha dimensione europea: vogliamo guadagnarci meriti in Europa partendo per primi in una crociata “per (sic) l’economia digitale”, noi che, se i fatturati delle web company si distribuiscono in proporzione al Pil, contiamo per l’1,5% del totale? Diciamo di voler attirare investimenti stranieri in Italia nel settore digitale: è il caso di innalzare il vessillo di “primi tassatori”?
Alla base di tutto questo ci sono un presupposto e un pregiudizio. Il presupposto è che un paese sia una sorta di bacino e la sua economia una specie di giacimento, da cui chi commercia estrae vantaggio, legittimato quindi a pretendere la sua parte del profitto che altri vi realizzano. Essendo restato fermo a Ricardo (o magari a Krugman) quanto ai benefici del commercio internazionale, confesso di non riuscire a cogliere la logica di questo presupposto, men che mai quando è ben chiaro in che direzione va il flusso dei prodotti e servizi di cui abbisogniamo. Quello che mi risulta incomprensibile è perché un paese come il nostro, che sta in piedi grazie alle esportazioni, dovrebbe diffondere idee così bislacche. E siamo al punto finale, il pregiudizio di fondo sui Big Tech. Che non paghino le tasse: un’autentica fake news, essendo chiaro che per i profitti realizzati in Europa c’è un contenzioso tutto interno tra Commissione e Governi (Irlanda o Lussemburgo), e che quelli fatti nel mondo sono in sospensione d’imposta grazie a una disciplina fiscale che gli americani per primi criticano, ma non si accordano per modificare. Che siano colpevoli delle infiltrazioni con cui potenze straniere hanno cercato (o forse sono riuscite) a influenzare i processi democratici, quando neppure i servizi segreti ne avevano avuto sentore. Che chiudano la gente nei loro pregiudizi, quando è chiaro che aprono a immense occasioni di comunicare.
C’è una ragione culturale se dalla Bay Area, un puntino sul mappamondo, sono partite le innovazioni che, con pervasività e velocità quali mai prima d’ora, il mondo l’hanno cambiato. Ha certo a che fare con l’integrazione tra università, parchi di ricerca (privata) e aziende.
Ma è soprattutto grazie al concetto di libertà, all’assenza di vincoli, che lì si sono formate, negli anni Sessanta, la controcultura che nasce parallela alle prime visioni di Internet tra Berkeley e Stanford, e un ecosistema libertario che trova le sue radici nella corsa all’oro e oggi celebra scrittori come Ayn Rand, che mettono al centro la libertà individuale. Questo è il terreno in cui nasce la cultura del “gratuito, perfetto, immediato” che contraddistingue il mondo dei bit da quello degli atomi. C’è una ragione culturale se l’Europa, che aveva avuto nel Minitel il precursore del web, dove si è formato il padre del microprocessore, che ha investito somme ingenti per costruire un suo motore di ricerca, sembra destinata ad essere schiacciata tra Usa e Cina: nel digitale e ancor più nella intelligenza artificiale.
Criticando gli Usa perché non procedono a regolare la grandi aziende tecnologiche, Margrethe Vestager, commissaria europea alla concorrenza, ha detto: «Non mi sento mai più europea che quando sono negli Stati Uniti. Perché noi siamo differenti».
Appunto…