Nonostante la battaglia di Mirafiori e i ripetuti crolli del mercato italiano dei veicoli, sembra che chi investe su Fiat scommetta più volentieri sull’ auto che su camion e trattori. Il primo responso degli investitori alla scissione della Fiat, a 112 anni dalla nascita della fabbrica torinese, ha sorpreso qualche analista. L’ attesa era per un debutto dei nuovi titoli di Fiat Spa (auto) e Fiat Industrial (veicoli da lavoro) con un valore combinato leggermente superiore a quello (15,43 euro) della vecchia azione Fiat nell’ ultima seduta del 2010, con un progresso soprattutto dal lato dei veicoli industriali: il settore più solido e sostanzialmente privo di debiti. Ma la cancellazione dal listino di un titolo quotato fin dal 1903 avrebbe anche potuto provocare qualche scossa sismica. E vulnerabile appariva soprattutto l’ auto, col pessimo consuntivo delle vendite di vetture in Italia, calate del 21 per cento a dicembre mentre la contrazione degli ordini è stata addirittura del 40 per cento. L’ esordio in Borsa delle due nuove società ha dissipato, per ora, i timori ed ha offerto una risposta moderatamente positiva con un aumento della capitalizzazione del gruppo significativa anche se si tratta di un primo responso. Perché, pur su uno sfondo di elevata incertezza, gli investitori hanno puntato più sull’ auto (più 5 per cento circa) che sui veicoli industriali? Perché, rispondono molti analisti, dopo la scissione una Fiat Spa più leggera e con una discreta liquidità ha maggiori possibilità di diventare protagonista di alleanze o aggregazioni capaci di valorizzare il titolo in Borsa. Gli investitori, insomma, scommettono sulla capacità di Marchionne di combinare al meglio i fattori di produzione, ma anche di rimescolare con abilità (e furbizia) le carte. Lui lo sa e dosa quotidianamente gli annunci. Se in Italia fa colpo soprattutto la sua minaccia di non investire a Mirafiori se i lavoratori bocceranno nel referendum l’ accordo siglato la settimana scorsa (con la Fiom che replica con durezza), all’ estero l’ attenzione si concentra soprattutto sul Marchionne che ipotizza l’ acquisizione del 51 per cento del capitale Chrysler da parte della Fiat già nel 2011. Per il manager italocanadese è insomma possibile (anche se non probabile, aggiunge ostentando prudenza) bruciare le tappe saldando in anticipo i debiti col Tesoro di Washington e adempiendo gli altri impegni presi col governo Usa. Certo, ad alimentare le polemiche in Italia ci mette del suo lo stesso Marchionne che anche ieri non ha risparmiato battute ruvide, definendo offensiva la richiesta di conoscere in dettaglio i piani industriali di Fabbrica Italia e rivendicando il diritto di tenersi le mani libere, visto che non chiede soldi allo Stato, ma va a raccogliere risorse sul mercato. A Roma o a Torino le parole taglienti dell’ amministratore delegato di Fiat e Chrysler vengono percepite come un intollerabile attacco ai lavoratori o una manovra che mira a tenere alta la pressione sul sindacato. In Paesi più abituati del nostro a ospitare grandi multinazionali «apolidi» – gli Usa, ma anche la Francia della concentrazione Renault-Nissan – le reazioni sarebbero diverse e il manager non avrebbe comunque bisogno di battere in continuazione sulla necessità di giocare la partita con le regole del mercato globale. Ma le tempeste italiche per ora non sembrano impressionare più di tanto chi investe in titoli Fiat. Gli operatori sanno che le mosse compiute da Marchionne lontano dall’ Italia – non solo la scommessa su Chrysler ma anche, ad esempio, il nuovo stabilimento col quale Fiat raddoppierà la capacità produttiva in Brasile – sono assai più importanti, per il futuro del Lingotto, della vicenda Mirafiori.
Fonte: Corriere della Sera del 4 gennaio 2011Cosa conta davvero per chi investe
L'autore: Massimo Gaggi
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