Se non fosse stato sciolto, l’Iri sarebbe oggi il Fondo sovrano di ricchezza italiano. Esso ha finito d’esistere perché non c’era più un Beneduce capace di resistere a un Mussolini, né un Mussolini a cui bastava che i manager pubblici creassero sviluppo e occupazione per lasciarli liberi di operare. Le banche sono state a loro volta privatizzate perché non esistevano più un Menichella o un Mattioli capaci di resistere alla politica, né una politica che si accontentasse dei risultati positivi che avrebbero potuto ottenere, invece di pretendere obbedienza e prebende. Non basta infatti ideare buone leggi e creare efficaci strumenti d’intervento al fine di migliorare le capacità competitive dell’economia: occorrono persone adatte a gestirle.
Rispondere al quesito se il provvedimento che consente di impedire che la Lactalis scali Parmalat, nonché quelli che permetteranno alla Cassa depositi e prestiti (Cdp) di svolgere un ruolo incisivo a favore delle iniziative di investimento e alla Banca del Sud di operare a favore dell’area di cui si fregia nel nome, dipende dalla capacità professionale e rettitudine morale di chi gestirà i vecchi e nuovi strumenti di intervento pubblici. Per questo occorre che gli assetti di governance siano tali da proteggere in futuro queste istituzioni, impedendo che cadano in mani sbagliate od ostili. Non mi faccio illusioni, conoscendo la storia economica d’Italia e avendola vissuta di persona in qualità di ministro dell’Industria che ha partecipato al tormentato processo di privatizzazione. Sono un programmatore per vocazione e un liberista per disperazione e, pur attratto dal sogno di uno stato che crea sviluppo e occupazione, ritengo preferibile una politica che si prefigga di contenere l’area di diretto intervento pubblico nell’economia; per il bene dei cittadini lo stato deve restare arbitro e non essere giocatore. Sono però altrettanto cosciente che il ritorno massiccio dello stato padrone nelle vicende economiche mondiali non può lasciare insensibile la politica italiana. Le scorrerie dei Fondi sovrani, apparentemente innocue e applaudite perché apportatrici di capitale di rischio, prima o dopo si riveleranno operazioni non di mercato, ma di potere. Corro quindi il rischio di negare una cosa dopo averla detta e affermo che le decisioni di Tremonti in materia di scalate e sostegno al capitale di rischio sono giustificabili se intendono affrontare la contingenza e non divenire un dato caratterizzante il nostro sistema economico. Perché questo intento sia accertabile in pratica, Tremonti deve accompagnare le sue decisioni da una richiesta rivolta all’Ue di regolare l’uso di questi strumenti protezionistici, limitandone il ricorso nel tempo e negandone l’uso permanente. La contendibilità delle imprese resta l’unico modo per impedire che proprietà e manager si adagino nella routine, beneficino di rendite e non di rado depredino il risparmio altrui. Inoltre, per dotare il mercato di regole coerenti e rispettate da tutti, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e il ministro degli Esteri, Franco Frattini, devono prendere una seconda iniziativa in sede G20 per integrare gli accordi che regolano l’appartenenza alla Organizzazione mondiale del commercio (Wto) con una clausola che imponga a tutti lo stesso regime di cambio, riferendo il valore delle valute nazionali ai diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale. Magari non li staranno a sentire, ma almeno daranno alle decisioni del governo di espandere l’area pubblica le caratteristiche di un’azione volta a indurre un miglior funzionamento del mercato.
Consigli a Tremonti per limitare gli eccessi dello stato padrone
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