• giovedì , 21 Novembre 2024

Consigli a Monti per non farsi spolpare dai mercati

L’Italia è in recessione come lo è il complesso dell’Europa. Ma la recessione italiana è più profonda. Nulla che non fosse previsto dal momento che la necessaria azione di consolidamento fiscale è stata condotta nel quadro di una politica europea di tipo pro ciclico, nell’illusione che la stabilizzazione finanziaria e fiscale fosse conseguibile all’interno di una politica fortemente deflattiva. Illusione che trova nel Fiscal compact in versione tedesca, non accettato dalla Gran Bretagna, il suo simbolo.
Questa politica non sta mostrando alcun successo di breve periodo ed è errato pensare di scambiare gli effetti di medio lungo periodo con una catastrofe di breve periodo, se non altro perché il breve periodo determina l’evoluzione di medio-lungo come sa chiunque si occupi di dinamica economica. Ma questa politica ha una alternativa?
La risposta varia a seconda che si assuma che la politica europea sia un dato esogeno rispetto alle scelte discrezionali italiane di politica economica o che si assuma che la politica europea sia parte delle scelte che il governo italiano è chiamato a prendere per influenzarla.
Questa risposta richiede anche una attenta valutazione delle posizioni di forza oltre che quelle di debolezza dell’Italia.
Ebbene sappiamo tutti che accanto al debito pubblico che determina la vulnerabilità italiana, l’Italia ha uno stato dei conti pubblici correnti, incluso il servizio del debito, che probabilmente è invidiato dalla maggior parte dei paesi avanzati.
Ma l’Italia ha oggi un altro asset invidiabile nel panorama non solo europeo, ed è la sua recente conquista di potenziale stabilità politica. Questa stabilità non è determinata dalla presenza di un governo tecnico, ma dall’essersi formata in Parlamento una maggioranza straordinaria, che non ha precedenti, a sostegno di una politica di risanamento e crescita. E’ la maggioranza “salva Italia” che rappresenta un asset fondamentale per agire sui mercati e per una politica non subalterna. E’ il governo consapevole dell’asset che è chiamato a gestire? E si sta dimostrando adeguato alla gestione di questo asset?
E’la risposta a queste domande che va cercata nei documenti in discussione Def e Pnr e soprattutto nell’impostazione complessiva di politica economica che questi documenti ci presentano.
In sintesi, il governo ci presenta un quadro economico previsionale più ottimistico di quello assunto da vari organismi internazionali, tra i quali il Fmi. Recessione nell’anno in corso, ma uscita dalla recessione per il prossimo anno. In questo quadro, si afferma che verrà raggiunto l’obiettivo del quasi bilancio in pareggio già nel 2013, con un deficit pari allo 0,5 del pil. Un saldo di bilancio che peraltro, aggiustato per il ciclo, e cioè in termini strutturali è previsto essere positivo, si conseguirebbe in altri termini un avanzo strutturale dello 0,6 per cento. Poiché gli obiettivi di bilancio andrebbero calcolati in termini strutturali saremmo secondo queste previsioni oltre gli obiettivi, pur ambiziosi, contrattati con l’Europa nella fase calda della crisi finanziaria.
Questo risultato sarà ottenuto grazie ad una pressione fiscale che raggiungerà un livello record e che non si prevede in diminuzione nei prossimi anni.
Naturalmente ogni peggioramento del ciclo, con un approfondimento della recessione, implica che sia il saldo di bilancio, sia la pressione fiscale, se misurate in percentuale del pil, mutino. Il deficit di bilancio effettivo aumenterebbe ed in parte anche la pressione fiscale dal momento che il gettito complessivo si ridurrebbe meno del reddito prodotto.
Se si pensasse di mantenere invariato l’obiettivo di deficit corrente, cioè non aggiustato per il ciclo, significherebbe che si dovrebbe ancora aumentare la pressione fiscale o ricorrere a ulteriori tagli si spesa, che seppur preferibili alla prima opzione, avrebbero ulteriori effetti recessivi. Credo sia tramontata l’idea che le politiche restrittive di bilancio possano avere effetti espansivi, se non in circostante speciali che non sono quelle dell’attuale contesto economico.
Tagli di spesa sono auspicabili solo contestualmente a riduzioni compensative di prelievo fiscale. L’azione deve essere contestuale non solo per gli effetti sul reddito disponibile, ma per dare credibilità all’operazione e quindi influire positivamente sulle aspettative delle famiglie e delle imprese. L’incertezza e l’indeterminatezza della politica di governo peggiora infatti le condizioni entro cui si stabiliscono le scelte economiche.
La spending review è una operazione non più rimandabile ma il cui fine è solo in parte quello di una ulteriore riduzione di spesa mentre è fondamentale il fine di ricomporre la spesa pubblica orientandola secondo criteri di efficienza e in base a valutazione attenta dei risultati correggendo i problemi creati dalla stagione dei tagli lineari decisi in condizioni di emergenza.
In conclusione dobbiamo essere chiari per tranquillizzare famiglie e imprese, da cui dipendono le scelte di consumo e investimenti. L’obiettivo in termini di saldi di bilancio effettivo non può essere avulso dallo stato del ciclo economico, ma deve essere mantenuto saldo l’obiettivo di bilancio strutturale. E’ bene anche chiarire che aumentare la pressione fiscale o tagliare strutturalmente la spesa per inseguire il pareggio di bilancio non corretto per il ciclo implica un aumento paradossale dell’avanzo strutturale di bilancio, ma potrebbe portare a un effetto contrario nel momento in cui la prolungata recessione arriva a determinare anche una riduzione del prodotto potenziale cioè della misura del reddito corretta per il ciclo con il quale si calcola il deficit strutturale.
Si tratta di una politica chiaramente non sostenibile, e che rischia di far saltare anche la sostenibilità sociale delle riforme strutturali che è necessario approvare al più presto.
Il consolidamento dei sacrifici fino ad oggi compiuti e quelli che dovranno essere affrontati vanno posti quindi all’interno di obiettivi di politica di bilancio e fiscale molto chiari:
a) mantenimento dell’obiettivo di pareggio di bilancio strutturale per il 2013;
b) invarianza del gettito fiscale complessivo ma impegno a impostare la riforma fiscale per una ricomposizione del gettito fiscale tra imposte dirette e indirette a fini di equità e crescita, non quindi solo manutenzione del sistema fiscale e maggiore efficienza dello stesso ma modifica strutturale a parità di gettito.
c) spending review diretta alla ricomposizione della spesa e porre un chiaro e predeterminato obiettivo di riduzione realistico e da attuare parallelamente ad una riduzione di gettito fiscale.
Questa dovrà essere una seria azione politica che al tempo stesso dia il segno di un forte rigore di bilancio ma non dia il segnale ai mercati di un sistema travolto in una corsa recessiva questa sì di tipo greco.
Al tempo stesso è necessario porsi seriamente il problema della riduzione del debito. Sappiamo che il debito non pone problemi di sostenibilità se non in situazioni di grave crisi finanziaria internazionale. Il conseguimento del pareggio di bilancio effettivo porrebbe l’Italia nella condizione di dover onorare il debito esistente ma non di finanziare deficit aggiuntivo. Inoltre la graduale riduzione del debito in percentuale del pil andrebbe conseguita mediante un pareggio di bilancio e l’aumento del reddito portato dalla crescita.
Tuttavia, nelle condizioni attuali, nelle quali è il pareggio strutturale che va perseguito nell’immediato per permettere di uscire dalla recessione è necessario un intervento straordinario di aggressione al debito. Un piano di dismissioni diretto ad alimentare un fondo per la riduzione del debito, insieme ad altre operazioni finanziarie straordinarie dirette ad accelerarne gli effetti, non può continuare a essere materia di dibattito ma richiede misure immediate e tempi certi. Credo che anni di studi e riflessioni permettano decisioni operative in tal senso. I risparmi di bilancio ma soprattutto i segnali ai mercati finanziari e anche agli operatori nazionali rafforzerebbero la fiducia nei confronti di una politica di consolidamento delle finanze pubbliche certa ma non guidata da un meccanismo di fallimento eterodiretto.
Credo che una politica come quella descritta non sia una politica appunto eterodiretta ma può essere considerata una politica in cui la nazione nel suo complesso, rappresentata dall’ampia maggioranza democraticamente eletta che ha dato fiducia a questo governo, possa riconoscere come rispondente ai propri interessi.
Il richiamo a una politica che risponda agli interessi nazionali non si contrappone al sentirci parte integrante dell’Europa e degli impegni che questa partecipazione richiede. Ma l’impegno primo che questa partecipazione richiede è quello di concorrere in posizione non di subalternità alla definizione della politica europea non solo nell’interesse nazionale ma nell’interesse del rafforzamento complessivo dell’Europa stessa. D’altra parte questa è la condizione perché la strada tracciata della nostra politica nazionale possa avere successo.
Qui entra in gioco l’asset politico di questo governo. Esso ha il pieno sostegno del Parlamento per mettere in discussione da posizioni non deboli la politica europea di austerity che si sta dimostrando fallimentare secondo le previsioni della maggioranza degli economisti ed anche degli organismi internazionali.
Vi è una debolezza crescente di leadership in Europa, e le posizioni che mettono in discussione la politica europea fin qui seguita sono crescenti in molti paesi europei. Nella situazione attuale in cui l’incertezza intorno ai debiti sovrani di alcuni paesi europei, determina l’aumento del costo di finanziamento non solo per i governi ma per le imprese di questi paesi, mentre si riduce a zero il costo di finanziamento non solo del debito sovrano tedesco ma anche il costo di finanziamento per le imprese di questo paese. Che questo risultato sia l’effetto voluto o meno di una politica europea dominata dall’impostazione tedesca non è importante. Quello che è importante e che questo meccanismo determina in presenza di una moneta unica un progressivo aumento dei divari di competitività all’interno dell’Unione senza meccanismi di aggiustamento, in particolare in un processo deflattivo imposto dalla politica dell’austerità. Si tratta di un risultato già previsto da molti economisti e che oggi diviene evidente.
Non si tratta di discutere di equità o di meriti o demeriti reciproci dei vari paesi , semplicemente si tratta di un meccanismo che rischia di rompersi anche se evidentemente alcuni pensano di poter trarne vantaggio fino a un momento prima della rottura. Ma spesso i tempi si calcolano male.
E’ ormai chiaro che non è la politica di aggiustamenti fiscale accelerata dei paesi in difficoltà di bilancio la sola causa di recessione in Europa ma la politica che obbliga al contempo paesi come l’Italia e la Spagna, per citare i paesi con peso economico più rilevante, ad una chiusura rapida dei loro deficit in un contesto di restrizioni di bilancio in tutti paesi, come dettato dal Fiscal compact. Se le politiche europee devono essere coordinate, allora le politiche di aggiustamento fiscale di alcuni paesi devono essere compensate da politiche di segno diverso di altri paesi, così come la riduzione dei disavanzi esterni di alcuni paesi devono essere compensati dalla riduzione del surplus di altri. E naturalmente queste compensazioni sono tanto meno costose e tanto più efficaci se riescono a determinare un quadro di crescita stabile.
D’altra parte, se guardiamo oltre l’Europa, è la crescita che chiede il resto del mondo che ha bisogno della crescita per uscire dagli squilibri globali tra oriente e occidente, squilibri che sono stati e sono ancora alla base dei sommovimenti finanziari, così come gli squilibri interni all’Europa sono alla base delle sue difficoltà finanziarie.
L’obiettivo della stabilizzazione finanziaria in Europa, che pone in difficoltà debiti sovrani e sistema bancario al tempo stesso, richiede un mutamento istituzionale della governance monetaria europea che non può essere sostituita dal ricorso seppur benvenuto ad azioni non convenzionali di sostegno alla liquidità. Ma il fondamento di una stabilizzazione finanziaria va ricercato nel rafforzamento delle prospettive di crescita, come ormai è chiaro a tutti, seppur in un quadro di riduzione dei deficit pubblici e di rientro dall’eccesso di debito.
Ciò che si richiede all’Europa è una correzione contemporanea sia della sua politica economica di bilancio sia della sua governance monetaria. Questa politica europea non è un dato esogeno ma è un dato sul quale il governo è chiamato a incidere profondamente come parte del proprio mandato, giovandosi sia dell’appoggio parlamentare sia delle politiche di aggiustamento interno che pongono l’Italia in una situazione prospettica di maggiore stabilità di altri paesi.
Le richieste devono essere chiare, non vi sarà ratifica del Fiscal compact senza la contemporanea adozione di una politica di investimenti sostenuta dall’emissione di Eurobond. L’emissione di Eurobond possibile a tassi di rendimento simile non al rendimento nullo dei Bund attuali ma al loro rendimento di qualche tempo fa, prima della tempesta, permetterebbe di finanziare la ripresa europea ma soprattutto agirebbe da meccanismo capace di frenare l’ampliarsi del gap di competitività tra paesi europei che è oggi effetto e non più causa delle difficoltà europee e dei rischi di dissolvimento dell’unione monetaria.
Questa è la prima condizione perché sia accettabile la ratifica del Fiscal compact e in questo contesto anche l’azione della Bce sul piano della governo della liquidità avrebbe maggiore efficacia. Si tratta infatti di rendere coerenti politica di bilancio e politica monetaria che oggi divergono. D’altra parte la correzione del mandato che sta alla base della governance della Bce è l’altra condizione di accettabilità del Fiscal compact sulla quale deve essere aperta una discussione chiara in sede europea. L’azione di sostegno alla liquidità condotta dalla Bce è stata necessaria ma ha avuto compiti limitati e temporanei. Rimane il problema che è di garanzia non di intervento effettivo del ruolo della Bce come prestatore di ultima istanza. Un ruolo la cui efficacia risiede nella credibilità della garanzia che di per sé determina la non necessità dell’intervento.
Si tratta di questioni ampiamente discusse e che trovano un consenso ormai maggioritario nella dottrina economica, nelle aspettative degli operatori di mercato e nelle richieste che provengono sia dalle maggiori economie non europee sia dai principali organismi internazionali preoccupati per i riflessi globali della crisi europea.
Il ritardo di risposta europea è di tipo politico e di dissenso interno dovuto al prevalere di interessi nazionali e quindi della nazione più forte. Tuttavia, le condizioni politiche e gli equilibri europei stanno cambiando rapidamente e soprattutto emerge anche all’interno della nazione più forte la consapevolezza che la politica fin qui imposta non è più neppure nel suo interesse nazionale, dal momento che la recessione europea e il rallentamento dell’economia nel resto del mondo, anche per effetto della recessione europea, sta avendo un impatto sensibile anche sulla sua economia.
Sintesi: non troviamo nel Def la forza necessaria di una politica economica adeguata alle necessità, essa appare ancora difensiva, proiettata all’ulteriore rattrappimento dell’economia, subalterna ad una impostazione di politica economica europea che oggi appare superata dai fatti e che va contestata non contro l’Europa, ma con l’Europa e per l’Europa.

Fonte: Il Foglio del 27 aprile 2012

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