di Fabrizio Onida
La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha colto l’occasione del suo discorso sullo stato dell’Unione (23 settembre) per chiedere a Mario Draghi di predisporre in tempi brevi un “rapporto sul futuro della competitività europea”. Tredici anni prima, il suo predecessore Josè Manuel Barroso aveva incaricato un altro “Super Mario” di stilare il rapporto “Una nuova strategia per il Mercato unico europeo. Al servizio dell’economia e della società europea” (Mario Monti, 9 maggio 2010). E il 16 marzo 2013 aveva visto la luce una Comunicazione della Commissione Europea e del Parlamento Europeo al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale e al Comitato delle Regioni “Competitività a lungo termine della UE: prospettive oltre il 2030”. Oggi da ultimo Enrico Letta, presidente dell’Istituto Jacques Delors, ha ricevuto dal primo ministro belga, prossimo ad assumere la presidenza della Commissione UE nel primo semestre 2024, l’incarico di redigere entro marzo 2024 un “rapporto di alto livello sul futuro del mercato interno della Ue”.
L’inizio della seconda decade degli anni 2000 ha visto il moltiplicarsi di documenti e raccomandazioni e il lancio di programmi europei e nazionali, variamente ispirati all’esigenza di un “rinascimento industriale” del continente europeo. La fantasia creativa di Draghi e Letta, unita alla loro invidiabile conoscenza dei meccanismi che dominano il funzionamento delle istituzioni comunitarie, fanno ben sperare nell’incisività dei messaggi che questi due prossimi documenti sapranno indirizzare ai governi e ai maggiori attori privati del grande mercato europeo.
Il futuro della competitività europea chiama in causa la ricorrente controversia sulla necessità o meno di una politica industriale che non si esaurisca nel garantire il diritto alla concorrenza, ma promuova le condizioni per il superamento dei “fallimenti del mercato”, che sono eterogenei e idiosincratici. Trovo interessante un recente intervento su Project Syndicate (24 novembre 2023) in cui Ricardo Hausmann (Harvard Kennedy School of Government) suggerisce l’analogia fra il fabbisogno di una efficace politica industriale e il diverso ruolo delle vitamine e degli antibiotici nella cura della salute: entrambi necessari per fornire risposte, sia a bisogni permanenti e diffusi (le vitamine), sia a bisogni eterogenei e specifici (gli antibiotici). Se parliamo di politica industriale, esempi dei primi bisogni sono l’istruzione professionale, il sostegno alla ricerca scientifica e industriale, le infrastrutture a supporto delle zone industriali, i cui costi vanno di norma condivisi tra pubblico e privato. I secondi bisogni, quasi sempre trascinati dalla rapida evoluzione tecnologica, presentano caratteri idiosincratici, diversi da settore a settore. Un esempio eclatante di questi secondi è la transizione collettiva verso i veicoli elettrici, per cui bisogna sfuggire al dilemma dell’uovo e della gallina: nessuno investe per costruire una fitta rete di stazioni di ricarica se non può contare sulla crescita della domanda di veicoli elettrici, ma al tempo stesso nessuno investe nella produzione di veicoli elettrici se non può contare sulla disponibilità delle reti di ricarica.
Il tema della competitività tra paesi porta a interrogarci sul confronto fra Europa e Usa, sul perché l’Europa come continente, con una popolazione superiore (450 vs. 330 milioni) continui a scivolare al di sotto come dimensione economica (Pil nominale 18.500 vs 23.400), ponendosi ad una distanza di quasi il 30% nella graduatoria del reddito per abitante a parità dei poteri d’acquisto e della produttività. Una delle spiegazioni, se non la principale, di tale divario rimanda alla maggiore frammentazione del mercato interno, che priva l’Europa delle economie di scala produttive e commerciali consentite al sistema economico americano.
Il divario tenderà ad aumentare nella misura in cui i massicci sussidi alle imprese con cittadinanza americana che il governo Biden sta elargendo tramite l’IRA (Inflation Reduction Act) e il Chips&Science Act convinceranno alcuni maggiori gruppi europei a trasferire almeno una parte della propria attività negli Usa per usufruire delle agevolazioni offerte.
Guardando alle priorità della prossima Commissione europea che inizierà a lavorare nel 2025, un importante funzionario coinvolto nel negoziato tra le capitali europee confessa che “Abbiamo bisogno di leaders che vedono la sfida della competitività come un problema a 27, non come un problema nazionale” (Financial Times, 5 novembre 2023). Semplice a dirsi, complicatissimo a farsi, tanto più alla luce dei risorgenti nazionalismi a cui stiamo assistendo nel quadro geo-politico della Ue.
Per non cedere al facile pessimismo vale la pena di sperare che, nel disegnare e implementare i prossimi interventi nazionali di politica industriale, i governi (a cominciare da quello di casa nostra) trovino la formulazione adeguata perchè nel definire i requisiti per l’accesso ai benefici fiscali e finanziari vengano in qualche modo premiati i progetti in “co-petition”, formula che sintetizza un approccio di concorrenza combinata con collaborazione nella ricerca e implementazione tra le imprese candidate. Senza comportare alcuna interferenza dei poteri pubblici con le autonome decisioni imprenditoriali, è possibile ispirarsi a modelli consolidati di permanente consultazione tra il governo e il top management dei principali gruppi privati e privato-pubblici per scambiare informazioni e valutare costi-benefici di grandi e medi progetti alternativi, ad esempio in vista della riconversione dei prodotti e dei processi verso la tanto declamata “economia verde”. Va promosso uno scambio di conoscenze in materia e uno studio indipendente delle esperienze finora acquisite in paesi come Germania, Francia, Olanda, Regno Unito.
Già oggi assistiamo in Europa al consolidarsi di catene di approvvigionamento transnazionali che, a seguito delle turbolenze derivate dal Covid e dalle conseguenze indirette della guerra russo-ukraina, molte imprese europee stanno cercando di accorciare e rivedere, alla ricerca di maggiore sicurezza nei rapporti contrattuali e un più efficace controllo sulla qualità e tempistica dei fornitori. Il potere trainante del grande mercato interno può allargare gli orizzonti e migliorare le competenze della burocrazia pubblica chiamata a “mettere a terra” i nobili propositi di una politica industriale amica delle imprese.
(Sole 24Ore 3 dicembre 2023)
Fonte: Sole 24Ore 3 dicembre 2023