Il calo dello “spread”, il differenziale tra i rendimenti dei titoli pubblici italiani e quelli tedeschi, non dovrebbe essere accolto con cieca soddisfazione. Chi ritiene che la crisi europea non sarà risolta fino a quando l’Italia, il più grande e quindi il più pericoloso tra i Paesi indebitati, non avrà ristrutturato la propria economia, teme che il calo dello spread allenti la pressione per le riforme. Teme soprattutto che in conseguenza di ciò, nel giro di alcuni mesi di inerzia, la sostenibilità del debito pubblico si aggravi anziché alleviarsi.
Ci sono due modi diversi di valutare spread ampi come quelli dell’euro area. Nella visione tedesca per esempio spread ben differenziati, associati alla possibilità di default, sono un carattere normale e perfino desiderabile dell’unione monetaria, perché rappresentano un costante incentivo ai governi a “tenere la loro casa in ordine”.
Una visione alternativa osserva invece che gli spread sono dannosi e che la loro persistenza a un livello eccessivo non è colpa dei singoli Paesi, ma dipende dal fatto che la Bce non ha un ruolo di prestatore di ultima istanza e dall’insufficienza di risorse comuni che contrastino i mercati quando prevale la sfiducia nella sopravvivenza dell’euro. In tali circostanze gli spread attivano un circolo vizioso tra aspettative di mercato e dinamiche dei debiti pubblici: i tassi salgono a livelli incompatibili con la stabilità dei debiti e auto-realizzano le attese di default.
La critica alla posizione “intransigente” è che tassi d’interesse troppo alti non sempre sono incentivi, in alcuni casi possono anzi scoraggiare l’aggiustamento fiscale perché esso non sembra mai produrre risultati sufficienti a premiare gli sforzi. La critica alla posizione “morbida” è invece che il calo degli spread riduce la possibilità di default di uno Stato, ma non la può escludere. In particolare se riguarda paesi che hanno accumulato alti debiti in anni passati, quando i tassi d’interesse erano molto bassi.
Aiutando Paesi che non sono capaci di ridurre il proprio debito o di aumentare il tasso di crescita, un intervento calmieratore sui tassi può rappresentare un falso incentivo e finisce per rendere il rischio di monetizzazione del debito una caratteristica intrinseca alla governance dell’unione monetaria europea, violandone il carattere originario di area di stabilità.
La situazione in cui ci troviamo oggi rappresenta un compromesso tra le due visioni radicali. Dopo il Consiglio Ue di giugno 2012, la Bce ha annunciato la volontà di intervenire con operazioni straordinarie per evitare che i timori di disintegrazione dell’euro si realizzassero. Da tempo si era capito che era necessario un compromesso che facesse cooperare politica monetaria e politiche di bilancio, senza che una dominasse l’altra. Ma affinché il compromesso fosse credibile, affinché cioè la mutualizzazione dei rischi attraverso la Bce fosse accettabile, era necessario che essa non fosse incondizionata né inevitabile. I Paesi assistiti vengono infatti sottoposti a condizioni precise. L’ipotesi avanzata dalla cancelliera Merkel di «contratti» che stabiliscano sempre non solo in emergenza – condizioni per le riforme per tutti i Paesi non sta invece facendo molta strada. Proprio la mancanza di condizionalità che vincoli la condotta di tutti i governi, renderà prevedibilmente più intensa nel 2014 la pressione affinché valga l’altro vincolo a ogni forma di mutualizzazione: che i Paesi cioè possano essere lasciati fallire se non fanno le riforme necessarie o se non tagliano i debiti in misura adeguata.
È prevedibile per esempio che la prossima sentenza della Corte costituzionale tedesca evochi la necessità di “interruttori” che revochino l’assistenza della Bce ai Paesi che non rispettano le condizioni poste dalla banca centrale. La possibilità che i Paesi dell’euro area finiscano in default tornerebbe nel quadrante degli investitori, accompagnata dalle crescenti riflessioni da parte del Fondo monetario sui metodi di ristrutturazione dei debiti pubblici.
L’Italia che tira un sospiro di sollievo in queste settimane in cui lo spread si assesta sui 200 punti, dovrebbe utilizzare questa pausa per scrivere da sé un “contratto per le riforme” che sia coerente con la sostenibilità del debito pubblico. Se non lo farà, potrà essere colta amaramente di sorpresa quando l’attenzione degli investitori tornerà a concentrarsi, forse già quest’anno, sul livello del debito pubblico italiano. In particolare quando emergeranno le prevedibili difficoltà nel rispettare il fiscal compact, la cui applicazione anche in ragione dell’uscita dalla procedura per deficit eccessivo – è alle porte.
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