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Coltivò l’ottimismo della ragione

Ha sempre creduto nella forza educatrice della cultura, malgrado le amarezze.L’addio improvviso. È come se un uomo del suo rigore attento al dettaglio fino all’ eccesso avesse studiato la sua uscita di scena in base a un meticoloso copione.
Un uomo di qualità. Lo potremmo definire così, ribaltando il titolo dell’ opera di Musil, la più conosciuta del grande romanziere austriaco. Di Tommaso Padoa-Schioppa («Mi raccomando il trattino…») si è scritto molto nei giorni successivi alla sua scomparsa, il 18 dicembre del 2010. Così improvvisa, così dolorosa, ma nello stesso tempo segnata da un’ eleganza tragica, persino teatrale: gli amici radunati a Roma, la visita alla Cappella Sistina, la cena a Palazzo Sacchetti, il malore al termine di un breve e commosso discorso di saluto. L’ immagine di un addio. Simbolicamente perfetta. Ed è stato come se una persona del suo rigore, della sua nitidezza morale, attento al dettaglio fino all’ eccesso, avesse studiato l’ uscita di scena dando corpo a un meticoloso copione d’ addio. Padoa-Schioppa amava la vita, però. L’ amava molto. La interpretava con la gioia del suo positivismo e con la profondità della propria fede, come ha testimoniato, il giorno delle esequie, Enzo Bianchi. Scorrendo il libro del fondatore della comunità di Bose (Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi) ci s’ imbatte in una serie di domande che a un certo punto della vita, l’ autore pensa attorno ai settant’ anni, quelli appena compiuti dal suo amico Tommaso, ognuno di noi dovrebbe porsi. «Ora che me ne vado, ho lasciato questo mondo di cose e di persone un po’ più bello? Ho vissuto dando fiducia e speranza?». Che cosa avrebbe risposto Tps? Quale reazione possiamo immaginare avrebbe avuto l’ economista, l’ uomo di cultura e delle istituzioni? Un protagonista del suo valore, colto, raffinato, ricco di ironia sottile e di compiaciuto understatement, avrebbe combattuto il suo naturale, e quasi leopardiano, pessimismo verso la classe dirigente del suo Paese e verso le attitudini più diffuse dei suoi cittadini. Si sarebbe soffermato sulle conquiste della nostra cultura e della nostra civiltà, sul primato costituzionale della legge, sulle radici profonde del nostro essere nazione, sulla lungimiranza italiana nella costruzione dell’ Europa unita. In questo idealmente vicino, nel solco di una straordinaria continuità ideale, ad Altiero Spinelli, padre di Barbara, la compagna con la quale ha diviso l’ ultimo e non piccolo tratto della sua esistenza. Il mondo che ha lasciato Padoa-Schioppa è più agiato ma non necessariamente migliore; le persone più evolute e consapevoli ma non per questo più aperte al prossimo, più felici e solidali. Il progresso economico, la globalizzazione, insieme al processo di unità europea, un’ unione di minoranze legate tra loro da un patto di mutuo rispetto, non hanno diffuso la concordia e la fratellanza, né radicato un sentimento di appartenenza a un unico destino. Piuttosto hanno sparso acredine e sospetti. L’ utopia filosofica della polis è stata schiacciata da un consumismo individualista e cieco. La solidarietà travolta da un avido egoismo. Negli ultimi anni della sua vita, Padoa-Schioppa ha dovuto amaramente constatare che il benessere economico non si accompagna necessariamente all’ esaltazione del bene comune. E la virtù di condividere ambiziosi disegni nella costruzione della società futura è assai rara. Non è il Paese che sognavo, è il titolo di una lunga conversazione con Alberto Orioli del presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi, l’ uomo che lo accolse in via Nazionale e lo avrebbe voluto come suo successore in Banca d’ Italia. Non credo però che Padoa-Schioppa, pur amareggiato dalla scarsa riconoscenza di molti verso l’ ideale europeo, in particolare dei cittadini dell’ Est, dimentichi troppo presto dello scarpone chiodato di Mosca, avrebbe mai scritto un libro dal titolo Non è l’ Europa che sognavo. No, non credo lo abbia mai pensato. Era un ottimista per natura, confidava nella capacità della cultura di plasmare gli animi, di coniugarli al prezzo del carbone (per usare la metafora del protagonista dell’ opera di Musil, dietro alla quale si staglia la figura di Rathenau), di elevare la persona al di sopra dei propri bisogni, dei propri egoismi. Era affascinato dall’ idea illuministica che governando si educa, e in questo forse s’ illudeva un po’ (l’ esperienza di ministro dell’ Economia è stata la più amara). L’ utopia dell’ europeista convinto non tracimava mai nel pessimismo arrendevole di molti suoi amici e coetanei. Stentava a riconoscersi in un Paese sempre più involgarito nel disprezzo dell’ interesse comune e dei principi costituzionali, ma manteneva intatta la fiducia nelle possibilità di un riscatto morale, nel colpo di reni di una classe dirigente pigra afflitta da una «veduta corta», come la chiamava lui, nell’ affermazione di un’ ambizione nazionale, seppur «timida». Padoa-Schioppa è rimasto fino all’ ultimo sinceramente convinto delle grandi possibilità di rinascita dell’ Europa. E dell’ Italia, pur sentendosi spesso «straniero in patria». Era fortemente ancorato all’ ottimismo della ragione, abbondante nella sua formazione liberale (ma non liberista, il mercato ha sempre bisogno della politica e dello Stato e non può mai sostituirsi né all’ una né all’ altro). E intimamente consapevole che il grado di civiltà di un Paese sia segnato soprattutto dal rigore e dall’ etica personali e dal rispetto e dal prestigio delle istituzioni. La frase di Jean Monnet «Nulla è possibile senza gli uomini, niente è duraturo senza le istituzioni», si attaglia perfettamente al pensiero di Padoa-Schioppa. In questi articoli scritti per il «Corriere della Sera», dal 1997 al 2010, è riassunta parte considerevole del suo pensiero. E il secondo quesito posto dal priore di Bose, Enzo Bianchi, trova piena e soddisfacente risposta. Padoa-Schioppa ha vissuto dando fiducia e speranza, anche in tempi che a volte assomigliano alla «vescica ribollente» dell’ Austria di Musil.

Fonte: Corriere della Sera del 1 febbraio 2011

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