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Ci vorrebbe più flessibilità per decidere l’età pensionabile

La partita dell’età pensionabile delle lavoratrici del pubblico impiego si è giocata in poche ore. Lunedì scorso il ministro Sacconi si è recato in Lussemburgo dove ha incontrato la Commissaria europea che aveva imposto all’Italia di rompere gli indugi e di elevare entro il 1° gennaio 2012 l’età pensionabile di vecchiaia a 65 anni. Pochi giorni dopo il Governo ha deliberato in tal senso. Noi italiani probabilmente abbiamo perduto qualche passaggio importante. La Vice Presidente Reding non è una crudele nemica delle donne. Ha battuto i pugni sul tavolo nella convinzione di rendere finalmente giustizia alle lavoratrici italiane che dipendono dalla pubblica amministrazione, ritenendo intollerabile che la “discriminazione” potesse durare fino al 2018. Da noi, tale decisione ha sollevato un pandemonio tanto che persino un “rigorista” come il sottoscritto ha ritenuto “irragionevole” l’atteggiamento della Ue.
Ormai la “cultura della pensione nel più breve tempo possibile” è talmente entrata a far parte del nostro patrimonio genetico che trattiamo sempre con un pizzico di compianto gli uomini e le donne a cui è richiesto di lavorare un po’ più a lungo. Ma – diciamoci la verità – c’è da essere pienamente soddisfatti di come il Governo ha gestito negli ultimi due anni una vicenda delicata e complessa come quella del sistema pensionistico? Anche in questo caso il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto. L’insieme dei provvedimenti adottati sono utili e positivi. Ed hanno tutti carattere strutturale. Mi riferisco all’elenco delle misure dall’inizio della legislatura: il superamento dei residui divieti di cumulo tra pensione ed altri redditi; l’adozione di coefficienti di trasformazione revisionati rispetto alle nuove aspettative di vita; l’aggancio automatico dell’età di pensionamento alle dinamiche demografiche; l’allungamento delle “finestre” e, infine, in due tempi, l’allineamento dell’età di vecchiaia delle dipendenti pubbliche a quella dei loro colleghi maschi. Si tratta sicuramente di interventi dotati di un forte appeal contenutistico, se è vero che per fare le riforme non è necessario suonare la grancassa, come vorrebbe una sinistra ammalata di retorica. Ma qualche punta di amarezza rimane, perché, al dunque, anche in materia di pensioni la linea è venuta dall’Economia.
Così i risparmi sui trattamenti pensionistici hanno finito, da un lato, per essere fagocitati nel quadro generale di manovre di cui le pensioni entrano a far parte soltanto perché un settore tanto importante sul piano finanziario non può essere escluso dagli interventi di contenimento del deficit; dall’altro, per derivare da decisioni degli organismi comunitari. Era proibito poter ragionare con calma e varare un pacchetto di misure – incluso l’innalzamento dell’età pensionabile degli uomini e delle donne – organiche ed innovative allo scopo di mettere o mantenere in equilibrio un sistema che dalla crisi (lontana dall’essere terminata) ha ricevuto un colpo molto pesante ? E magari impiegare le risorse risparmiate in interventi innovativi nei campi del lavoro e delle politiche sociali?
Il Governo ci spiegava che tutto andava per il meglio, anche se bastava leggere qualche carta (non attraverso le intercettazioni telefoniche ma avvalendosi di documenti ufficiali, nostri ed europei) per accertare che una crisi economica e finanziaria tanto violenta, come quella che ha colpito il mondo sviluppato nel 2009, non poteva non determinare – in conseguenza del crollo del pil – delle conseguenze anche sui sistemi previdenziali. Oggi continua questa discutibile resistenza sull’età pensionabile di vecchiaia delle donne occupate nel mondo del lavoro privato, come se l’anno per le nuove finestre non fosse lì ad indicare che i 60 anni sono ormai dietro le spalle.
Due anni or sono chi scrive, insieme ad altri deputati, presentò un progetto di legge in cui veniva prefigurato, nel sistema contributivo, il ripristino di un pensionamento flessibile all’interno di un range compreso tra 62 e 67 anni (a cui, ora, si potrebbero applicare sia i coefficienti di trasformazione, sia l’aggancio all’attesa di vita a partire dal 2015). Se vi fosse stato il coraggio di prendere in considerazione tale proposta oggi avremmo un sistema molto più equilibrato ed equo e ci saremmo risparmiati di sottoporre a un innalzamento violento le lavoratrici del pubblico impiego. La sinistra ufficiale (quella stessa che oggi ha fatto proprio tale soluzione) si schierò contro questa proposta perché conteneva anche l’ipotesi di elevare fino a 62 anni l’età di vecchiaia delle donne anche nel sistema retributivo. Ma anche il Governo non fu da meno.

Fonte: Occidentale del 14 giugno 2010

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