Ci vorrebbe un Keynes
di Paolo Savona
In occasione del conferimento del Premio Keynes-Sraffa, il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, dopo aver esaminato i progressi e le lacune della cooperazione economica internazionale, ha detto: «Si avverte il bisogno di un pensiero forte, del quale la teoria economica sia parte coerente». Un mese dopo, un gruppo significativo di uomini di governo, di imprenditori e di studiosi, sotto l’egida dello Aspen Institute Italia, hanno dato vita a uno scambio di idee sul come ridisegnare l’Unione europea in vista della presidenza italiana di turno, che cade nel secondo semestre di quest’anno. Il ventaglio degli argomenti è stato inevitabilmente quello che rimbalza quasi tutti i giorni sui media e sarebbe noioso elencarlo. Non lo è invece ricordare il modo in cui i problemi vengono affrontati sul piano dell’economia, che resta una parte preponderante dell’alleanza europea.
Gli eurocrati o gli euroentusiasti affermano che tutto ciò che doveva essere deciso è stato fatto, dalla moneta (con il Trattato di Maastricht) al sociale (con l’accordo di Lisbona) e che occorre solo gestire meglio le istituzioni create. Ciò che resta lo devono fare i Paesi con le riforme strutturali. La responsabilità è quindi individuale, ossia a livello nazionale, e non collettiva, cioè a livello di Bruxelles, Lussemburgo e Francoforte. Ciò che manca è una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, il risanamento dei bilanci statali e della finanza pubblica, il rafforzamento dell’istruzione e della ricerca innovativa e il miglioramento dei mercati finanziari e della pubblica amministrazione. Se i Paesi faranno le riforme di struttura, le istituzioni europee create (cioè le regole e i “giocatori”) daranno i vantaggi attesi. In breve, la colpa della peggiore performance dell’economia rispetto agli Stati Uniti è dei Paesi aderenti all’Unione e non dell’Unione stessa.
Non è una novità che la miopia che affligge la cooperazione internazionale spinge a domiciliare la responsabilità a livello nazionale poggiando lo sviluppo mondiale sul principio che “ciascuno deve mettere ordine in casa propria”. Non è quindi una sorpresa che questa miopia colpisca anche la visione del futuro dell’Europa unita. Questo è il motivo per cui l’Europa ha bisogno di Keynes! E del suo circolo di Bloomsbury. Ma non ne ha bisogno nel senso delle politiche da lui suggerite, che non bisogna escludere per principio tra gli strumenti attivabili (come suggeriscono i nostri governanti europei), ma dell’azione di rottura dei convincimenti che, come Keynes ha sottolineato nella sua “Introduzione” alla Teoria Generale, “si ramificano in tutti gli angoli della mente” e avverte che “la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie”. L’Unione monetaria europea è paralizzata da un liberismo ideologico che ha poco di pragmatico (e, infatti, Regno Unito e Svezia si tengono fuori) e che viene sbandierato come l’antidoto ai vizi che affliggono le società e l’economia del Vecchio Continente.
Ma se i vizi continuano, evidentemente l’antidoto non funziona. Infatti, se la moneta unica e la libertà di circolazione dei capitali fanno regredire le economie nazionali dal livello raggiunto rispetto al regime non unitario significa che non sono adatte allo scopo e vanno esse stesse riformate. Ciò vale anche se il motivo è che i Paesi non fanno le riforme di struttura. Significa infatti che le istituzioni create non inducono i Paesi a farle. D’altronde, una volta che si è deciso di creare l’euro in un’area monetaria riconosciuta come non ottimale, che si è imbalsamata la politica fiscale e che si sono posti limiti quantitativi inadeguati alle politiche di coesione, la responsabilità cessa d’essere solo nazionale e diviene necessariamente europea, essendo questo il livello al quale si trovano le necessarie soluzioni. E se non si trovano, come finora non si sono trovate, si deve tornare alla sola unione doganale, lasciando ai Paesi la responsabilità di scegliere il proprio disordine, pagandone i costo.
È più democratico pagare il costo di un proprio disordine che quello di un disordine creato con istituzioni sovranazionali caratterizzate da un deficit democratico. Giovanni Sartori ha dato una definizione di democrazia molto incisiva: il diritto di un popolo di sbagliare, purché sia pronto a pagarne le conseguenze.
Per questo occorre un Keynes, o un circolo intellettuale europeo come il suo, capace di rompere gli attuali equilibri istituzionali che producono effetti economici e sociali perversi. Questo stato di cose non è certo una novità per la storia d’Europa: ancora una volta il conservatorismo, sia pure in forme nuove, affligge il futuro del Vecchio Continente.