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Chi guiderà gli imprenditori

Finora il confronto tra Alberto Bombassei e Giorgio Squinzi per la presidenza della Confindustria è vissuto quasi esclusivamente attorno all’abolizione dell’articolo 18. Fortunatamente, però, da qui al 22 marzo c’è tutto il tempo per rimediare, magari a cominciare già da domani a Bologna quando i due concorrenti incontreranno gli industriali emiliani. Del resto, se questi dibattiti fossero aperti e fosse previsto un contraddittorio all’americana la qualità delle rispettive proposte verrebbe fuori con maggior nettezza e trasparenza.
Ma quali sono i temi sui quali è interessante approfondire il punto di vista di Bombassei e Squinzi? Vale la pena forse cominciare proprio dall’organizzazione che andranno a dirigere. In un’intervista concessa al Corriere nel gennaio 2011 Emma Marcegaglia indicò un dettagliato piano di riforma della Confindustria. Molte misure sono rimaste sulla carta, magari solo per il sopravvenire di scadenze più urgenti, ma il nuovo presidente dovrà impegnarsi a fondo per ridurre il peso della burocrazia interna. Convegnite, duplicazione di strutture, rimodulazione dei servizi offerti alle imprese sono alcuni degli snodi da affrontare e se i contendenti assumessero da subito impegni precisi se ne gioverebbe l’immagine stessa della confederazione.
Più in generale, infatti, si può dire che le stagioni migliori della Confindustria, da Angelo Costa in poi, sono risultate quelle in cui la sua azione è riuscita a legarsi a un’idea di Paese, alle esigenze di modernizzazione anche di chi non possiede un’impresa. Basti pensare al processo di apertura dei mercati o all’adesione al processo di integrazione europea. Nessuno chiede a Viale dell’Astronomia di rinunciare alla funzione primaria di sindacato delle imprese, ma visto il momento che viviamo non è esagerato chiedere a Bombassei e Squinzi di indicare quale società immaginano, quale possa e debba essere il futuro dell’Italia. In fondo, se la Confindustria gode di tanta considerazione è perché tutti la quotano come parte insostituibile della classe dirigente. E da questa responsabilità non ci si può dimettere.
Proporsi come classe dirigente dell’Italia 2020 vuol dire proseguire lungo il percorso di privatizzazione e liberalizzazione delle strutture di un Paese invecchiato. Per farlo con credibilità occorre però render conto di come si è operato nel recente passato. Non ci si deve sottrarre ai bilanci e alle autocritiche. Troppe volte, infatti, un monopolio pubblico si è trasformato in uno privato senza che l’associazione degli imprenditori facesse sentire la sua voce. Mentre un pezzo importante dell’industria italiana si ristrutturava e si metteva in gioco sui mercati internazionali – le aziende di Bombassei e Squinzi, la Brembo e la Mapei ne sono due esempi – c’era un’altra fetta che ambiva solo a diventare «imprenditore della concessione» e a dotarsi di una robusta protezione politica. Resta così la sensazione che, mentre l’economia italiana si muoveva in una prospettiva privatistica e Partecipazioni statali più Intersind venivano sciolte, un po’ di quello spirito – certamente non il migliore – sia trasmigrato nel campo degli industriali privati. Il capitalismo di relazione non è solo intreccio «cucciano» di piccole partecipazioni finanziarie, è anche un’antropologia, un modo di viversi come imprenditori a bassa intensità.
Sarebbe di grande interesse anche se i candidati entrassero nel merito delle scelte di politica industriale.
L’esperienza Brembo e Mapei è quella di un made in Italy competitivo dal punto di vista tecnologico e capace di creare valore; è probabile quindi che entrambi estendano questo messaggio a tutte le imprese. Continuare sulla strada della specializzazione, non stancarsi mai di innovare. Ma cosa dirà la Confindustria a quegli associati, mettiamo i produttori di elettrodomestici, che sostengono apertamente che non c’è alternativa alla delocalizzazione? Li scoraggerà o tenterà di elaborare un mix funzionale tra innovazione di prodotto e luogo di produzione? Sempre in materia di politica industriale c’è da affrontare il destino delle piccole imprese che rappresentano – non lo si dimentichi – l’85% degli associati. Non è forse giunta l’ora di modernizzare le relazioni tra grandi e piccoli favorendo il massimo delle aggregazioni ma anche mutuando le pratiche migliori di accorciamento della filiera, di partnership con i fornitori, di creazione di reti di impresa?
Infine, una competizione leale sulla leadership del mondo industriale italiano non può eludere il nodo del credito. I piccoli si vedono chiudere dalle banche i rubinetti mentre il dialogo di vertice tra Confindustria e Abi non è stato mai così fitto e collaborativo. È politicamente scorretto chiedere a Bombassei e Squinzi di mettere in secondo piano la diplomazia interassociativa e programmare con i banchieri «un bagno di sincerità» per affrontare il rischio credit crunch ? Molti loro elettori si aspettano che lo facciano.

Fonte: Corriere della Sera del 13 febbraio 2012

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