Cè una bolla Twitter che cresce. Non è tanto il suo valore di Borsa, ma il commercio di falsi account, che ha fatto nascere un nuovo fiorente business, diviso in più fette, e con diversi protagonisti.
La prima è quella di chi vende i falsi indirizzi, di solito intestati a persone famose o che vogliono diventarlo. È la parte più povera, e non a caso si trova in paesi come il Pakistan, lIndia, eccetera. Un esempio? Lo offre un articolo del Wall Street Journal: mille account sono passati di mano per 58 dollari poco tempo fa da un alacre pachistano e un organizzatissimo americano che fa questo di mestiere.
La seconda fetta è quella di chi gestisce i falsi account (per diventare un lavoro ben retribuito devono essere tanti). Lo si può immaginare incollato a una serie di computer che lancia e rilancia tweet, che intervengono e si rispondono in un vorticoso giro costruito per far crescere il traffico intorno a quella persona e quindi la sua popolarità. Tutto falso, inventato, gonfiato.
Lultimo stadio del business è appunto quello di chi gode della visibilità su Twitter senza fare fatica. Lazienda dice che i falsi sono solo il 5 per cento degli utilizzatori. Cè chi li stima almeno il doppio.
Il bello è che sarebbe tutto proibito, contrario ai principi aziendali dello stesso Twitter, eccetera.
Ma quanto ci piacciono queste mammole di Internet, e nello stesso tempo quanto tifiamo per chi riesce a fregarle. È la nuova etica del Web.
Che importa se il Twitter e’ falso
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