Laccordo raggiunto tra i 17 capi di stato dell’Eurozona è stato ritenuto un passo avanti per la sopravvivenza dell’euro (perché di questo si tratta). Il test sarà presto fatto: se il premio al rischio richiesto dal mercato sui debiti sovrani dei paesi in difficoltà non si ridurrà, il passo avanti non ci sarà stato e il rischio di una crisi dell’euro resta tra gli eventi possibili. L’accordo sarà efficace quando i premi al rischio si azzereranno. E’ quindi necessario uno scambio tra garanzia piena sui debiti pubblici e maggiore rigore fiscale; esso darebbe più tempo ai paesi per individuare un rientro non deflazionistico dagli eccessi di finanza statale. Un patto più incisivo rafforzerebbe la crescita dei paesi che hanno dimostrato di saper e poter cogliere i benefici del meccanismo europeo “zoppo”, ossia privo dell’unione politica, ma anche quella dei paesi che non hanno mostrato pari abilità, per i risparmi sul costo dei loro debiti pubblici a seguito della scomparsa del premio al rischio (che adesso tocca i cinque punti percentuali).
Le debolezze costituzionali dell’Unione europea sono chiare nella mente dei capi di stato, ma non lo è altrettanto la soluzione; ciò emerge dal comunicato dell’11 marzo, nella parte riguardante le istanze che hanno suggerito il “Patto per la competitività”. Esso, tuttavia, non può funzionare, come non ha funzionato la Strategia di Lisbona, perché lascia la responsabilità di attuazione ai singoli paesi, con la Commissione di Bruxelles in funzione di censore. Sopravvive in Europa un sistema di relazioni internazionali sostanzialmente ingiusto, che alla lunga non regge né sul piano economico, né su quello sociale. Tuttavia, allo stato delle cose nel mercato globale e nei comportamenti di taluni stati membri, lo scambio ipotizzato non presenta alternative, anche se sanzionerebbe la raggiunta leadership europea della Germania. La resistenza dei paesi più esposti ad accettare questa prospettiva politica ha impedito la conclusione di uno scambio incisivo garanzie-rigore e rinviato la soluzione definitiva del problema dell’euro.
Tutto ciò avviene nel momento in cui si delinea un aumento dei tassi d’interesse. Se venisse attuato aggraverebbe l’onere finanziario sui bilanci pubblici, fornendo motivazioni per ulteriori attacchi speculativi sui debiti sovrani che, a loro volta, indurranno nuovi vincoli sulle politiche fiscali e ulteriori difficoltà sulla strada dello sviluppo del reddito e dell’occupazione. La motivazione dell’inconsueto annuncio da parte della Bce è che l’aumento dei prezzi delle commodity (soprattutto petrolio e alimentari) è permanente e, come tale, diviene veicolo di maggiore inflazione interna; va quindi curato con la deflazione, sancendo la sua natura di tassa sui redditi che si trasmette ai prezzi finali secondo il grado di concorrenza nell’area interessata. Come se non bastasse, l’aumento solleciterebbe domanda speculativa di euro per beneficiare dei maggiori rendimenti rispetto al dollaro; ne conseguirà una rivalutazione della moneta europea che scoraggerà le esportazioni sensibili al prezzo, largamente presenti nell’interscambio italiano. Per fortuna i dubbi sulla tenuta dell’Eurosistema operano paradossalmente da deterrente. L’idea che la politica monetaria europea possa distinguersi da quella americana fino a condizionarla è tesi ardita. Nella migliore delle ipotesi può essere perseguita solo decidendo di intervenire a sostegno dell’euro per impedirne il rialzo; ma questo coinvolgimento resta un tabù per la Bce. Se ogni area continua a scegliere autonomamente il da farsi, la cooperazione internazionale continuerà ad attenuarsi, il mercato globale a funzionare male e lo sviluppo a languire.Pagheranno come sempre i più deboli.Non è il mondo in cui ci aspettavamo di vivere.
Che cosa c’è che non torna nelle tesi della Bce sui tassi d’interesse
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