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C’è un vincolo finanziario alla crescita delle imprese

In un bell’editoriale dell’11 marzo scorso Ferruccio De Bortoli giustamente elogiava le nostre medie e piccole imprese che crescono, maggioranza silenziosa e lavoratrice alquanto trascurata dai media e svantaggiata nel rapporto con il credito e con la burocrazia. Da queste imprese, molte divenute multinazionali tascabili, sempre più dipende il futuro del Paese e la sfida contro l'”apatia declinista”, essendo quasi scomparse le grandi imprese industriali.
Ma abbiamo oggi in Italia un vincolo finanziario alla crescita delle imprese? La risposta è: no, ma anche sì sotto certi profili.
Perché no? Perché ormai da alcuni anni il credito bancario è abbondante, l’elevata liquidità domestica e internazionale tiene bassi i tassi d’interesse. Un buon livello degli utili consente ampio ricorso all’autofinanziamento. Il vincolo è dunque sul lato della domanda: nell’attuale prolungato ciclo di crescita modesta o vicina a zero resta bassa la domanda da parte delle imprese di risorse finanziarie per sostenere investimenti e sviluppo. Molte imprese, lungi dal voler crescere velocemente, puntano a ritagliarsi e cercar di mantenere una propria specifica e limitata nicchia. Gli stessi fondi di private equity e venture capital hanno disponibilità da investire nettamente superiori alla domanda di capitale di rischio che proviene dal mercato.
Allora il vincolo è solo dal lato delle imprese, oltre che delle note carenze infrastrutturali e di sistema-Paese? Non del tutto, perché banche e altri intermediari finanziari possono fare, e in alcuni casi stanno facendo, la loro parte per smuovere il sistema. Vediamo in che senso.
In primo luogo, a confronto con l’Europa la struttura finanziaria delle imprese italiane resta squilibrata non solo per un elevato peso del debito rispetto al capitale proprio (eccessivo leverage), ma anche per una quota ancora troppo elevata di debito a breve scadenza. Come in più punti ricorda l’ultima relazione della Banca d’Italia (pagg. 269, 273, 283), la quota di debito bancario con scadenza superiore a cinque anni, così come la componente a medio-lungo termine dell’insieme dei debiti finanziari, pur salite negli ultimi anni, restano in Italia nettamente inferiori alla media dell’euro-area. Tale condizione accresce sia il livello che la rigidità degli oneri finanziari. E dunque mal si presta a trovare il giusto equilibrio nel profilo temporale dei rendimenti futuri delle proprie attività a fronte degli esborsi futuri per le proprie passività, almeno per imprese che puntano a investimenti per la crescita e l’innovazione.
A questa prima anomalia si aggiunge un’offerta di credito bancario che, in particolare per le imprese di minori dimensioni, è per circa due terzi basata su garanzie reali e spesso personali dell’imprenditore (capannoni, beni immobili, pegno su titoli ecc.), riflettendo una logica più assicurativa che di finanziamento dello sviluppo industriale. Logica da cui deriva anche la pratica del multiaffidamento (in media quasi sette banche creditrici per la stessa impresa debitrice: altra anomalia italiana, sia pure in tendenziale calo). Una pratica forse comoda a entrambe le parti, ma che porta a confondere l’affidabilità reddituale dell’impresa col patrimonio privato dell’imprenditore e non stimola un’attenta valutazione del merito di credito dell’impresa debitrice.
Lo stesso imprenditore teme una eccessiva intrusione della banca nei propri affari e scelte strategiche, non ama bilanci troppo trasparenti e tanto meno vincoli di governance al proprio controllo assoluto sulla condotta dell’impresa, e pertanto preferisce indebitarsi con più banche a fronte di garanzie reali prodotte scorporando beni e utili in un patrimonio personale, piuttosto che reinvestire gli utili, aumentare il proprio e altrui capitale di rischio nell’impresa e migliorare così il proprio rating creditizio. Le prossime regole di Basilea 2 porteranno certamente a correggere queste pratiche distorcenti, ma non bisogna perdere tempo. Tra l’altro, le modifiche negli ultimi anni nella legislazione fiscale per le imprese (abbandono prematuro della Dit a favore della “thin capitalization”), così come un’eventuale abolizione dell’Irap sugli interessi passivi, non sembrano produrre una spinta efficace verso una struttura finanziaria d’impresa con minor debito e maggior capitale di rischio. Su questo terreno non parleremo dunque di vincolo finanziario alla crescita in senso proprio, ma di qualcosa di molto simile.
In terzo luogo, va da sé che per le (poche) imprese di medio-grande dimensione il sistema bancario italiano è oggi normalmente in grado di fornire direttamente (o attingere dalla rete interconnessa delle grandi banche d’investimento internazionali) i necessari servizi innovativi per operazioni di finanza straordinaria (fusioni e acquisizioni, emissione di corporate bond, quotazione in Borsa ecc,). Ma non possiamo dimenticare che l’accesso a questi servizi è assai meno alla portata delle imprese di minore dimensione pur disposte a compiere un salto dimensionale. Ancora una volta, non è solo un vincolo di domanda (Considerazioni finali Banca d’Italia, pag. 30), ma anche di qualità dell’offerta e della relativa assistenza tecnica resa disponibile alla clientela minore da parte del sistema bancario.
Infine, molto resta da fare perché l’azione degli intermediari finanziari non bancari (fondi di private equity e venture capital) sia efficace complemento del credito bancario nel finanziamento della crescita dell’impresa familiare. Questi gruppi di investitori privati intervengono con capitale di rischio, e talora con risorse manageriali, ma solo entro un orizzonte temporale di pochi anni (non sono “capitale paziente” come i fondi pensione). Il normale way out per questi operatori sta nella quotazione in Borsa, o più spesso in Italia in cessione delle quote a soci esterni alla famiglia, talora in operazioni di management buy out. La persistente fragilità ed esasperata concentrazione della Borsa italiana, unita alla scarsa mobilità del capitale familiare tra imprese produttive dello stesso settore o altri settori (non solo dall’impresa alla finanza o alla rendita edilizia) sono ostacoli seri che una moderna cultura bancaria e finanziaria può contribuire a ridurre.
La fortissima pressione competitiva internazionale (non solo Cina!) sul nostro sistema produttivo rende urgente accelerare processi di cambiamento organizzativo, di innovazione e di crescita dimensionale, come l’ultimo rapporto annuale dell’Istat non manca di sottolineare. Banche e intermediari finanziari non bancari possono e debbono fare di più.

Fonte: Il Sole 24 Ore - Maggio 2006

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