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Catastrofismo in Prima Pagina? Per la stampa economica è snob

L’economia italiana se la passa male, non c’è dubbio. Ma il giornalismo economico non sta molto meglio. La sua malattia si chiama catastrofismo. Una sindrome caratterizzata da sintomatologia ossessiva: ossessione per le graduatorie in generale, spiccata propensione per le graduatorie nelle quali l’Italia fa la parte, come si dice in gergo, del . Se si scorrono le pagine dei quotidiani o dei settimanali relativamente ai temi macroeconomici (sulla finanza il discorso è un po’ diverso) si trova un giorno sì e uno no una classifica che ci boccia, raramente una che ci promuove. La lente con la quale si guarda alle vicende della macroeconomia è fortemente sbilanciata sui toni grigio scuri. Oggi, come dieci anni fa. Perché questa ossessione per l’Italia , ultima degli ultimi e in ritardo pressoché su tutto è politicamente neutrale. Colpisce quando governa la Destra come quando è al potere la Sinistra.
Prendiamo il mantra dell’Italia ultima in competitività che viene recitato ogni anno a caratteri cubitali allorché il World economic forum di Ginevra pubblica la sua classifica internazionale. Nel 1995 eravamo trentesimi (, Corriere della Sera, 6 settembre ’95). Nel 2004 eravamo 47mi: . Certamente l’Italia ha perso competitività, ma possiamo essere 47mi? L’indice di competitiività del Wef gode di grande prestigio, anche perché alla sua costruzione ha messo mano Michael Porter di Harvard. E tuttavia si tratta di un indice opinabile perché fondato su criteri solo parzialmente quantitativi: in realtà è un un mix di dati quantitativi e sondaggi di opinione ma i criteri di elaborazione non vengono mai esplicitati sulla stampa economica.
Non è un caso che nessuno dei grandi paesi europei sia mai comparso nelle prime dieci posizioni della graduatoria. Nel 2004 la Francia era al 27mo posto, la Germania, al 13mo. E comunque è realistico pensare che tra Italia da una parte, Francia e Germania dall’altra ci sia un differenziale di competitività così ampio? Se fosse così dovremmo avere fatto già bancarotta.
All’ossessione per le graduatorie plumbee (, Il sole 24 Ore, 16/3/05, , Il Sole 10/3/05, , il Sole 15/03/05 sul tema dell’Italia sottorappresentata a Bruxelles) corrisponde una assenza pressochè totale di pezzi di cronaca o di inchieste sui fenomeni opposti. Eppure la semplice consultazione su internet di nationmaster.com, un sito che raccoglie statistiche ufficiali della Banca mondiale, del Fondo monetario e dell’Ocse porterebbe a interessanti scoperte. Innanzitutto in tema di equità economica.
Tra i maggiori paesi industriali l’Italia infatti ha la migliore distribuzione del reddito. Nella graduatoria della quota di reddito assorbita dal 10% più ricco della popolazione l’Italia è al 22mo posto, gli Usa al terzo, il Regno Unito al quinto, la Spagna al decimo, Francia e Germania rispettivamente al 12mo e al 16mo. In campo tecnologico non è vero che siamo messi così male: siamo sesti in Europa per numero di imprese biotech, terzi per utilizzatori di internet, quinti per numero di service providers. Quanto alla leggenda secondo cui Microsoft non avrebbe potuto nascere in Italia (), si dimentica che Bill Gates non era proprio un nessuno: non solo apparteneva a una delle famiglie più potenti di Seattle, ma la madre era presidente della United Way una società informatica collegata a Ibm. E chi offrì il primo contratto a Gates? Ibm, appunto.
Il diffuso pessimismo con cui il giornalismo economico guarda alle vicende macroeconomiche nazionali produce talvolta esiti paradossali e spinge i governanti ora di destra ora di sinistra a perorare un po’ più di fiducia. Nel 1995, l’anno che sarà archiviato come il più brillante della recente storia economica nazionale (più 3,4% il Pil in media annua), sulla stampa apparivano titoli di questo tenore: “Il boom freddo. Industriali, sindacati ed economisti cauti sul balzo del 4% del Pil” (Corriere della Sera, 7 luglio ’95) Oppure: “L’economia tira, ma non troppo” (ibidem, 23 agosto ’95). Tanto che il presidente del Consiglio dell’epoca, Lamberto Dini, durante una conferenza stampa a Washington invitò i giornalisti a moderare il loro pessimismo e pronunciò la celebre frase: . Nell’ottobre del 1995, a pochi mesi dalla manovra che avrebbe consentito all’Italia l’ingresso nell’euro, il Corriere della Sera sentenziava: . Eppure nel gennaio successivo Carlo Azeglio Ciampi, interrogato da Arrigo Levi, affermava: (Corriere della Sera, 15/1/’96).
Altrettanto paradossale è la differenza di toni con cui la stampa economica osserva le vicende macroeconomiche e quelle di finanza aziendale. Nei giorni in cui le prime pagine erano dominate dal crollo competitivo segnalato dal Wef, Il Sole 24 Ore pubblicava una tabella sulle brillanti prospettive di 40 titoli di borsa (positive in 34 casi, neutrali in 4 negative solo in due, Il Sole, 21/02/05). In genere le pagine finanziarie e di cronaca aziendale sono dominate dal segno più (più utili, più fatturato eccetera). Il che porta a una rappresentazione dell’economia nazionale schizofrenica, con il paese sull’orlo del baratro e le imprese che tuttavia si arricchiscono. Peraltro, anche i cittadini appaiono ricchi, se è vero che a fronte di un debito pubblico pari al 106% del Pil, la ricchezza finanziaria delle famiglie supera il 200% (Bollettino economico, Banca d’Italia, marzo ’05).
Una seria analisi delle ragioni della sindrome ossessivo-catastrofista del giornalismo economico italiano non è stata ancora fatta. Ma si potrebbero abbozzare alcune ipotesi: Da una parte, la considerazione di sufficienza con cui nel mondo giornalistico italiano si è tradizionalmente guardato agli , visti un po’ come dei ragionieri, ha spinto gli stessi economici a cercare spazi e accessi in prima pagina con un sensazionalismo un po’ provinciale, tutto giocato in negativo. L’Italia è un paese più umanistico letterario che scientifico: si spiega così che Ferruccio de Bortoli sia stato forse l’unico direttore di giornale generalista proveniente dall’economia. Dall’altra parte, la attuale generazione dei giornalisti economici italiani si è formata negli anni Ottanta-Novanta che sono anche gli anni della convergenza per rispettare i parametri di Maastricht e della corsa all’euro. Delle graduatorie dei bravi e dei cattivi, insomma. Ma la sindrome catastrofista potrebbe nascere anche dai particolari assetti proprietari della grande stampa italiana: in fondo i risultati delle imprese brillano se non altro per differenza con le scarse performance dell’economia macro governata dalla politica. Certo sarebbe opportuno che un settore così delicato della macchina dell’informazione come il giornalismo economico riflettesse un po’ di più sui suoi limiti e sulle sue potenzialità.

Fonte: Il Foglio - maggio 2005

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