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Care Camusso e Fornero, la flessibilità crea occupazione non la distrugge

Torniamo nuovamente sul ddl di riforma del mercato del lavoro che, proprio domani, in Commissione Lavoro del Senato, concluderà la prima fase dell’iter legislativo raccogliendo gli emendamenti presentati dai senatori. A monte esiste un accordo politico, assunto nell’ultimo incontro tra Monti ed ABC (perché non li chiamiamo Qui, Quo, Qua?), in base al quale la maggioranza si sarebbe impegnata a «circumnavigare» la spinosa questione della riforma dei licenziamenti individuali (che tuttavia rimane, sul piano tecnico-giuridico, un pasticcio a fronte di una confermata inutilità sul piano politico), mentre sarebbero possibili poche e selezionate modifiche su taluni aspetti della c.d. flessibilità in entrata.
Anche il Pd si è reso conto che la presunzione negativa ispiratrice del provvedimento (ogni rapporto flessibile è fasullo fino a prova contraria) avrebbe creato seri problemi alle imprese e reali difficoltà all’occupazione. Così, i relatori Maurizio Castro e Tiziano Treu – ambedue personalità di grande spessore, competenza ed autorevolezza – stanno studiando alcuni emendamenti da proporre al governo, in particolare, sui temi delle c.d. partite Iva, del lavoro a termine e dell’apprendistato. Ma il percorso non sembra né pacifico né tranquillo. Di mezzo si è messa la Cgil che contesta le modifiche alle norme che servono a contrastare quella supposta precarietà che, ad avviso di Susanna Camusso, sarebbe la vera emergenza del paese.
E’ solo un pregiudizio ideologico ritenere che i contratti flessibili (job on call, staff leasing, a termine, ecc.) non siano strumenti giuridici più idonei a regolare specifiche situazioni non riconducibili a modelli forzatamente standard, ma assurgano addirittura alla causa principale della precarietà. E che il fenomeno della precarietà sia confinante con quello della disoccupazione. Rimane, dunque, incomprensibile che il governo abbia inteso risolvere il dualismo del mercato del lavoro facendolo evolvere (sarebbe meglio dire involvere) in direzione di una maggiore rigidità complessiva proprio nel momento in cui è in atto una grave recessione economica.
I giri di valzer intorno all’articolo 18 – che nel frattempo si è trasformato da un logoro totem ad uno sdrucito spaventapasseri – non hanno consentito di mettere adeguatamente in luce il punto debole di tutta la vicenda, che sta nello squilibrio con cui sono state poste in relazione tra loro le due grandi operazioni che la riforma avrebbe dovuto affrontare: garantire, mediante una minore rigidità in uscita dal rapporto di lavoro, l’avvio di un migliore quadro di tutele e di stabilità in entrata. E’ qui che la riforma auspicata diventa una controriforma reale. E, insieme, si rivela una scelta priva di senso, perché solo i salmoni, per natura, sono capaci di sfidare le correnti dei fiumi risalendoli in senso contrario per andare a depositare le uova nelle acque limpide delle sorgenti.
Come ha scritto recentemente Bruno Anastasia in un volume curato da Dell’Aringa e Treu per la collana Arel-Il Mulino (Giovani senza futuro?), è il livello complessivo della domanda di lavoro che fornisce la maggiore probabilità, per un numero più elevato di soggetti, di transitare verso condizioni di impiego stabili.
In sostanza – aggiungiamo noi – non esiste la scorciatoia legislativa auspicata dalla Cgil e assunta dal ministro Fornero. “Paradossalmente – ha annotato Anastasia – la permanenza in una cronica situazione di precarizzazione è persino difficile: l’alternativa ad uno sbocco stabile tende ad essere piuttosto la disoccupazione o l’inattività (da scoraggiamento) o l’emigrazione (per i laureati). Le politiche del lavoro volte a contrastare la precarietà hanno vitali bisogno di un ambiente di sviluppo e di crescita della domanda di lavoro regolare… Diversamente alle politiche resta la scelta se migliorare la distribuzione della disoccupazione riducendo gli insiders e aumentando i precari o se, in alternativa, ridurre i precari ma concentrare su alcuni particolari segmenti della forza lavoro la disoccupazione”.
La flessibilità, dunque, non è l’altra faccia della disoccupazione, ma uno strumento adeguato per contrastarla. E per fare emergere il lavoro nero. Siamo andati a ritroso a prima della grande crisi e ci siamo permessi di lasciare, a documentazione, alcune valutazioni che allora si facevano, in sede istituzionale, rispetto ai trend del mercato del lavoro in Italia, a seguito degli effetti della legislazione sulla flessibilità. Se passa senza modifiche il ddl Fornero considerazioni simili dovremo dimenticarle anche se e quando si avvierà un po’ di ripresa.
“Il mercato del lavoro negli ultimi anni è stato caratterizzato da un’espansione dell’occupazione pur in presenza di una crescita economica scarsa o nulla”.
Fonte: “Monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro” 2007, curato dal Ministero del Lavoro
“Nel 2006 l’occupazione italiana è tornata ad aumentare a tassi elevati. La svolta della domanda di lavoro ha mostrato una sostanziale consonanza con il ciclo della produzione, reagendo senza ritardi alla ripresa dell’attività economica. Tale andamento mette bene in luce come la stabilità dei livelli occupazionali avvenuta nel corso della fase di recessione, fatto del tutto inusuale in una prospettiva storica, non avesse generato livelli di occupazione eccedenti i fabbisogni reali delle imprese. E’ quindi bastato che l’economia cominciasse a riprendersi per attivare una domanda di lavoro aggiuntiva.”
Fonte: Cnel – “Il rapporto sul mercato del lavoro 2006” (luglio 2007 pag. 49)
“L’incremento è pari a 396mila unità di lavoro secondo la contabilità nazionale. Soltanto lievemente superiore risulta quello degli occupati secondo la rilevazione sulle forze di lavoro, che registra la ragguardevole creazione di 425mila posti di lavoro aggiuntivi”. Si tratta di 348mila unità di lavoro per i dipendenti (+2%) e di 48mila per gli indipendenti (+0,7%)”.
Fonte: Cnel – “Il rapporto sul mercato del lavoro 2006” cit. pag. 51
“La crescita occupazionale registrata nel corso del 2006 è eccezionale sotto diversi punti di vista. Innanzi tutto sotto il profilo puramente quantitativo perché si tratta della crescita massima dell’occupazione registrata nel nostro paese………….Vi è una sostanziale coincidenza temporale fra l’accelerazione nella crescita del prodotto e quella delle unità di lavoro. non si è verificato il classico ritardo temporale che tradizionalmente separa l’inversione del ciclo della produzione da quello della domanda di lavoro.”
Fonte: Cnel – “Il rapporto sul mercato del lavoro 2006” cit. pag. 53

Fonte: Occidentale del 23 aprile 2012

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