Nell´angoscioso succedersi delle notizie sul disastro finanziario internazionale non si è pienamente avvertito l´emergere di un risvolto ideologico di sottofondo, pericoloso ancorché confuso. Torna al proscenio la mala pianta di un´idea generale che spieghi il passato, il presente e il futuro dell´umanità, fornendo altresì la ricetta salvifica per il prossimo avvenire, che ad essa si contrapponga. Si tratta di un vecchio copione che sembrava riposto ma che evidentemente è destinato a rinascere dalle sue stesse ceneri, ogni qualvolta gli eventi volgano al peggio e le parti più sprovvedute o tendenti all´illusione e all´utopia dell´opinione pubblica, ritrovano il lenitivo di un nemico da battere, di un complotto da svelare, di un sogno drogato da coltivare. Così, invece di perseguire una analisi concreta dei fenomeni in corso, ci si appresta a restar preda del «populismo degli utopisti che predicono la Città del Sole», come ha denunciato su queste pagine Eugenio Scalfari, con parole che paiono attagliarsi criticamente un esempio fra tanti all´empito palingenetico del sociologo tedesco Ulrich Beck (in un articolo riportato anche dal nostro giornale) in cui l´autore si chiede se il movimento di «Occupy Wall Street» sia in grado «sul modello della primavera araba di distruggere il credo dell´Occidente, la visione economica dell´american way».
E la risposta è sì poiché la protesta contro il sistema coinvolgerebbe davvero, numericamente e non iperbolicamente, il 99% degli sfruttati contro l´1% dei profittatori. Con buone speranze di un rovesciamento epocale, poiché «ciò che fino a ieri veniva chiamato libera economia di mercato e che ora ricomincia ad essere chiamato capitalismo viene portato sul banco degli accusati e sottoposto a una critica radicale». Inutile, quindi, scavare per individuare gli errori che hanno aperto voragini devastanti dal 2008 ad oggi, prima nella finanza e nell´economia americana, quindi in quella europea; una perdita di tempo attardarsi sulla mondializzazione come un contesto che abbisognava, venuta meno la potestà degli stati nazionali, di forti organismi multinazionali e di nuove regole capaci di controllare e imbrigliare l´innovazione, altrimenti destabilizzante, della libera circolazione dei capitali.
Interrogativi inutili se ci si confronta con un male assoluto, il Capitalismo, cui va contrapposto un sistema alternativo dove «i beni comuni siano di tutti, messi a disposizione dei loro naturali fruitori, cioè delle persone che vivono in quei luoghi e che decideranno sul posto le regole del valore d´uso nelle piazze di quel luogo» irride sempre Scalfari, che prosegue: «L´acqua è un bene d´uso comune, l´aria, le foreste, le reti di comunicazione, le case, le fabbriche, i trasporti, gli ospedali. E le banche? Non servono le banche
». È singolare questo revival del socialismo utopistico del primo Ottocento, quando Proudhon predicava la rigorosa equazione del valore delle cose al lavoro e, quindi, l´eliminazione di ogni forma di prezzo del denaro. Affabulazioni innocue ma non tanto se le rapportiamo allo striscione che apriva la prima manifestazione studentesca contro Monti: Via il governo dei sacrifici!, mentre quelle delle settimane precedenti univano destra e sinistra sotto lo slogan: Non pagheremo il debito, una rivendicazione del diritto sociale al default. Ma il segno più clamoroso dello smarrimento della realtà, che caratterizza tutti questi movimenti di protesta, pur fruitori di tante simpatie, è la loro rivendicazione di una alternativa di sistema come se da essa non fossimo usciti poco più di venti anni orsono. È stato il più grande esperimento sociale e politico che l´uomo abbia tentato in tutta la sua storia. Si chiamava comunismo o socialismo reale, dominava da Cuba a Vladivostock, durò più di 70 anni, fallì ovunque con eguali caratteristiche: dittatura poliziesca e depressione economica. È inutile che i contestatori lo rimuovano. La sua memoria è incancellabile.
Cancellato Stalin si torna a Proudhon
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