• mercoledì , 25 Dicembre 2024

Botto di classe.

E poi uno dice che torna il terrorismo nelle fabbriche…
Davvero le vicende sindacali della Fiat sono il prodromo della rinascita del terrorismo nelle fabbriche e che, di conseguenza, Marchionne rischia la vita? Siamo sicuri che gli atti di intolleranza che ci sono stati ultimamente (Schifani, Bonanni, Ichino) siano il segnale di un incombente pericolo non solo di squadrismo giustizialista – che già si è manifestato da tempo – ma anche di lotta armata? Giampaolo Pansa ha fatto benissimo a scriverne su Libero, e la sua preoccupazione non va assolutamente presa sotto gamba. Forse – speriamo – le cose non stanno proprio nei termini descritti da Pansa, forse non sono così avanti come lui paventa, ma su una questione così delicata è bene tenere accesi i riflettori, e comunque è meglio sbagliare enfatizzando il pericolo che, viceversa, sottovalutandolo o addirittura tacendolo. Anzi, siccome Pansa è stato trattato come un vecchio rincoglionito con il fragoroso silenzio di reazioni inesistenti – a parte una lodevole intervista di Repubblica a Ichino e una coraggiosa trasmissione di Giannino su Radio24 – ecco spiegato il motivo della scelta di questo argomento per “tre palle un soldo” di questa settimana: un’altra lampadina accesa, qualche watt per tenere fuori dal cono d’ombra l’argomento.
Detto questo, vediamo di entrare di più nel merito. Ho già espresso qui più volte l’idea di come sia legittima la scelta della Fiat di rompere il velo di ipocrisia – che essa stessa ha contribuito a creare, peraltro – intorno a certi comportamenti in fabbrica e alle coperture sindacali di cui essi godono. E nello stesso tempo, però, non ho mancato di esporre dubbi e riserve circa le reali intenzioni di Marchionne, che potrebbe avere in mente, una volta fatta la fusione Fiat-Chrysler – di cui ieri si sono messe le premesse con la creazione di due Fiat, una per l’auto e l’altra per tutto il resto delle attività industriali – di portare la testa del gruppo a Detroit e di distribuire il corpo (le fabbriche) nelle aree del mondo dove il lavoro ha un costo minore e una flessibilità maggiore. Non in Italia, dunque, che rimarrebbe non competitiva – almeno nei confronti di certi paesi – anche se dovesse passare pienamente la linea Fiat-Federmeccanica. E siccome la fusione porterà gli Agnelli ad avere un ruolo marginale, per cui i motivi di natura più generale di permanenza del gruppo in Italia verranno meno, è possibile che Marchionne, che certo nazionalista non è (e nel caso: svizzero, canadese o italiano?), abbia comunque intenzione di delocalizzare e quindi di “usare” le vicende sindacali per giustificare future decisioni drastiche. Detto questo, le denunce degli abusi (Melfi), delle cattive abitudini (Pomigliano) e più in generale di molte rigidità nella organizzazione del lavoro e la richiesta di un decentramento aziendale della contrattazione, rimangono sacrosante. E in nessun caso possono costituire un alibi per qualunque forma, anche solo verbale, di intolleranza e di violenza. Se a Ichino viene impedito di parlare, ha ragione di dire che quella forma di demonizzazione personale è la stessa che ha preceduto, creandone le condizione, l’assassinio di Marco Biagi. Le parole e i comportamenti sono pietre, e nel caso di Biagi il sottoscritto non ha mai mancato di sottolineare la responsabilità di Cofferati. Dunque, anche se Marchionne avesse in testa di portare tutta la produzione Fiat fuori dall’Italia – cosa peraltro legittima, anche se, fosse vera, sarebbe meglio esplicitarla questa intenzione – non rappresenterebbe davvero un buon motivo per demonizzarlo, o peggio. Una cosa è chiedergli conto del perché la Fiat dall’anno scorso ha perso un punto di quota di mercato in Europa, altro è dipingerlo come “l’uomo nero”. Certo, chiudere fabbriche significherebbe aggravare situazioni sociali già pesanti. Ma qui entra in gioco il vero motivo per cui assistiamo ai fenomeni che hanno indotto Pansa a lanciare un grido d’allarme: la totale scomparsa di ogni capacità riformista. Quando il Paese accumula ritardo nella crescita, non fa le riforme, non ha un modello di sviluppo in testa né sente il bisogno di discuterne – e ieri è stata la Confindustria, anche molto duramente, a denunciare tutto questo – allora lascia spazio agli estremismi. E di questo ha responsabilità prima di tutto la sinistra, incapace di assumere una linea riformista chiara e netta tanto in politica (quanto contano le idee di Ichino nel Pd?) quanto nel sindacato (perché il socialista Epifani non rompe con le componenti più assurdamente antagoniste della Fiom?). Ma ne hanno non meno i moderati, che pur godendo di un consenso abbondante non sono stati capaci di cambiare in profondità un Paese troppo vecchio, autoreferenziale e sempre rivolto al passato per essere moderno. E poi uno dice che torna la lotta di classe.

Fonte: Il Foglio del 17 settembre 2010

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