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Bondi e le banche, scontro finale

C’è stato un momento in cui lo volevano dappertutto. Il gran risanatore, che con il suo tocco magico è riuscito nel miracolo di portare Parmalat dalla bancarotta fraudolenta alla quotazione in Borsa, avrebbe dovuto salvare Alitalia secondo i radicali. Per Giuseppe Gazzoni Frascara era l’uomo giusto alla Lega calcio, al posto di Galliani, così da mettere ordine nel groviglio di vipere e di debiti. Qualcuno lo vedeva bene addirittura come ministro del Tesoro subito dopo le dimissioni di Domenico Siniscalco. Enrico scissorshands, mani di forbici, era l’unico in grado di tagliare davvero la spesa pubblica. E perché non un futuro a Mediobanca? In fondo era stato il chou chou di Vincenzo Maranghi e Cesare Romiti. Loro, con il consenso di Enrico Cuccia, gli avevano affidato il più grande pasticcio del capitalismo italiano fino ad allora conosciuto. E lui, insieme al presidente Guido Rossi, aveva rovesciato Ferfin-Montedison come un guanto per il piacere dei grandi azionisti e lo scorno dei piccoli (e dei conti pubblici) secondo l’impietosa analisi di Alessandro Penati che ne aveva fatto uno study case per i suoi studenti. Rompendo l’incanto.

Anche l’aura salvifica e divinatoria che Bondi si è portato dietro in tutti questi anni è improvvisamente sbiadita quando il 16 marzo si è saputo che Claudio Scajola ha firmato un assegno di 32 milioni (come anticipato dal Mondo), denari dei contribuenti, per remunerare il gran risanatore e il suo staff. Tutto regolare, per carità, l’appannaggio è stato generosamente octroyé dal ministro in obbedienza al decreto Marzano. E i Bondi boys hanno fatto un gran lavoro; però, si tratta pur sempre di una società in via di ricostruzione che potrebbe, forse, distribuire un dividendo nel 2007. Le associazioni dei risparmiatori e dei consumatori sono scese sul piede di guerra e, per uno dei tanti paradossi italiani, adesso si trovano sullo stesso fronte delle banche, loro tradizionali nemiche. L’Adusbef, del resto, già a novembre 2004 aveva messo nel mirino le consulenze d’oro: 38 milioni di euro, di cui 17,8 finiti nelle tasche degli avvocati.

Ma lui non fa una grinza. Determinato come sempre, Enrico Bondi da Arezzo, segno zodiacale bilancia (è nato il 5 ottobre), 72 anni portati alla grande, l’aria ascetica, lo sguardo puntuto, le labbra tirate in un sorriso beffardo che ricorda certi ritratti di Nicolò Machiavelli, da commissario si è trasformato in amministratore straordinario e poi in amministratore delegato. E ha continuato dritto per la sua strada, nella guerra donchisciottesca contro le banche, quelle straniere (a cominciare da Bank of America) e quelle italiane che, trasformando i loro crediti in azione, sono diventate socie di Collecchio (Capitalia con il 5,3%, JPMorgan con il 2,6% e Banca Intesa con il 2,2%).

Il 28 febbario, nell’aula del tribunale di Milano, Bondi accusa: . Quanto alla emissione di bond collocati presso i risparmiatori, ha spiegato che avveniva . Parole dolci come il miele per Calisto Tanzi il quale è arrivato a dichiarare: . Per forza, coincide con la sua stessa linea di difesa. Tanto che il suo avvocato, Gian Piero Biancolella, ha definito l’ex patron di Collecchio che non sapeva quel che avveniva alle sue spalle, operazioni ben note, invece, a Bank of America la quale doveva essere , ha spiegato Bondi.

Ai pochi amici fidati il manager aretino confida che questa è la battaglia della sua vita. Ma quale Mediobanca! Con le banche (compresa l’Assobancaria) che, dopo il suo j’accuse, minacciano di fargli causa per danni all’immagine, parla solo attraverso gli avvocati. Finito il lavoro, non gli resta che la pensione da dirigente d’azienda che del resto già riceve, generosamente annaffiata con l’appannaggio Scajola. Dunque, tornerà nel suo uliveto dove si lancia in esperimenti, lui che ha sempre amato definirsi un chimico, disciplina nella quale si è laureato e che lo ha portato alla Montecatini?

Chi lo conosce sa che di andare in pensione Bondi non ha nessuna voglia nonostante lo abbia già annunciato molte volte, almeno tante quante le dimissioni minacciate e spesso davvero rassegnate, come dalla Montedison dopo la scalata Edf-Fiat o da Telecom Italia. è uno dei soprannomi che gli hanno affibbiato accanto a quello più conosciuto: la Sfinge. E proprio come il mitologico essere, ancora una volta Bondi lancia un enigma.

Proprio a coté della udienza al tribunale di Milano, si è lasciato andare ad alcune dichiarazioni sul futuro dell’azienda di Collecchio. Ha respinto qualsiasi avance di Granarolo: impossibile un matrimonio che sarebbe bocciato dall’antitrust, ma soprattutto sarebbe sbilanciato a favore della cooperativa guidata da Luciano Sita la quale punta a break-up per diventare il numero uno nel latte. Nessuna vendita e nessun spezzatino. Parmalat è in ripresa, nel 2005 ha registrato ricavi in crescita del 3,6% e un indebitamento in calo di 166 milioni. Tra un anno potrebbe addirittura distribuire un dividendo. Il titolo, quotato in ottobre a oltre 3 euro, un livello del tutto irrealistico spinto da una eccitazione speculativa, oggi vale 2,5, più dell’ultimo anno di Tanzi, prima che il marcio venisse a galla.

Altro che cessione, Parmalat può diventare . Di più, Bondi non ha detto. Anzi, per le sue abitudini è anche troppo. Ma abbastanza da far drizzare le antenne agli operatori che seguono il mercato alimentare. Quale polo? La Sfinge ha in mente un piano? Ai suoi collaboratori, proprio mentre gli piovono sul capo le bordate delle banche, ha confessato che lui non capisce la linea degli istituti di credito. Per loro sarebbe conveniente negoziare, in particolare per le banche azioniste. Non solo, mettendo una pietra sul passato, potrebbero guardare al futuro. E il futuro sta accumulando nuvole oscure sull’industria alimentare italiana. Da decenni ormai i principali marchi sono caduti nelle mani delle multinazionali. La fanno da padroni Unilever, Nestlé, Danone. L’acquisto di Galbani da parte di Lactalis, nel disinteresse generale, è l’ultimo campanello d’allarme. Hai voglia di collocare a Parma l’agenzia alimentare europea, se l’Italia è ormai solo terra di conquista.

Bersaglio, secondo gli analisti, può diventare l’ultimo grande gruppo alimentare italiano: Barilla. La tedesca Kamps non è ancora digerita. Forse era un boccone troppo grosso, certo è andato di traverso alla Popolare di Lodi. Il sostegno fornito a Barilla nel 20002 ha lasciato in bilancio una serie di acquisizioni che equivalgono ad altrettanti fardelli. C’è il 4,6% della Finba Holdings, utilizzata per acquistare Kamps, al prezzo di 49,9 milioni di euro; il 4,6% della Finba Netherlands usata per acquisire la francese Harry’s (biscotti) con un valore a bilancio rimasto di 15,2 milioni nonostante la partecipazione sia poi scesa al 7,2%; un altro 9,95% della lussemburghese Baker equity valutato 69,9 milioni. La Kamps continua a non andare bene, dunque impiomba non solo la Lodi, che vorrebbe far pulizia in tutti i cassetti lasciati da Gianpiero Fiorani, ma la stessa Barilla.

Se le banche cambiassero linea, è il ragionamento di Bondi, e decidessero di pagare, così come hanno fatto quelle americane nei crac Enron e Worldcom, si potrebbe chiudere il contenzioso, rilanciare davvero Parmalat e pensare a un matrimonio, questo sì davvero strategico, con Barilla per costruire un vero campione nazionale. Come il maestro Cuccia, sa leggere i bilanci in filigrana e ne sente la puzza di marcio al primo fiuto. Ma proprio sulle orme di Cuccia, quel che conta davvero per lui è smontare i giocattoli rotti e costruirne di nuovi. Modello Ferfin.

Le due storie, in effetti, hanno impressionati parallelismi. C’è la piramide di scatole cinesi nascoste nei più lontani paradisi fiscali; un tourbillon di passaggi monetari tra mani sconosciute; una montagna di debiti anche verso soggetti esteri; una barocca struttura più da finanziaria d’assalto che da moderno complesso industriale. La differenza, e non di poco conto, è che il gruppo Ferruzzi era esposto soprattuto verso le principali banche, mentre Parmalat ha coinvolto e rovinato 135 mila risparmiatori che non hanno perso solo gli (scappò detto in Parlamento ad Antonio Fazio) e sono pronti a una class action all’americana.

Siccome nessuno, nemmeno i geni, hanno più di una grande idea durante la loro vita, Bondi ha seguito a Parma lo stesso canovaccio sperimentato a Ravenna nel biennio ’93-’95. Innanzitutto la ristrutturazione finanziaria, trasformando i crediti bancari in capitale, rinunciando a parte degli interessi e consolidando il debito. Un processo di dismissioni delle attività no core, concentrando le altre in alimentare (Eridania), energia (Edison) e petrolchimica (la vecchia Montedison). Azioni di responsabilità: Rossi e Bondi revocarono l’incarico a Price Waterhouse, il paradosso è che si affidarono a Deloitte & Touche finita sul banco degli accusati nel crac Parmalat.

Anche allora, non fece il Cincinnato. Concluso con successo il salvataggio, l’aretino andò a guidare Montedison, capofila del nuovo gruppo che, dopo la vendita dell’alimentare ai francesi, e l’uscita dalla chimica, si era concentrato nell’energia. Ma, alla svolta del nuovo millennio, tutti gli equilibri saltano. Comprese le poltrone della Sfinge aretina.
Il colpo grosso nel 2001 è la scalata da parte di Edf che, con l’aiuto della Fiat riesce a conquistare il primo produttore elettrico privato in Italia. Cuccia è morto da un anno, Maranghi regna a Mediobanca, ma non governa più e contro di lui cova la rivolta che lo avrebbe detronizzato due anni dopo. Italenergia, la società che raggruppa Edf, Fiat e Romain Zaleski, raccoglie il 52% del capitale Montedison spalleggiata da tre banche che con Maranghi non hanno mai legato: SanPaolo Imi, Intesa e Banca di Roma. A quel punto, la partita è già vinta. Maranghi cerca di salvare alcuni gioielli finanziari in pancia a Montedison, soprattutto Fondiaria, la compagnia di assicurazione fiorentina per la quale lui e Cuccia si erano battuti contro Mario Schimberni e Raul Gradini. Con un vero e proprio blitz, un’assemblea straordinaria decide di cederla alla Sai di Salvatore Ligresti. Lì finirà anche Bondi, ma dopo due brevi quanto tempestosi passaggi.

Fatto fuori da Montedison, il gran risanatore trova un altro ginepraio da dipanare, forse il più grande di tutti, in prospettiva: Telecom Italia. L’ha appena conquistata Marco Tronchetti Provera con colpi di scena anche rocamboleschi i cui dettagli sono emersi in relazione alla caduta di Chicco Gnutti e Giovanni Consorte. Poi c’è stato il crollo del titolo e l’11 settembre che costringe il nuovo azionista di riferimento a chiedere uno sconto al venditore, cioè lo stesso Gnutti che l’anno dopo rientrerà in Olimpia. Telecom è un monopolista pubblico che in soli tre anni ha avuto tre diversi assetti proprietari e un turbinio di manager. Soprattutto, è superindebitato. Bondi sembra l’uomo giusto al posto giusto. Ma trova subito brutte sorprese. La prima è una microspia nella sua auto presa in affitto. E’ noto che la Sfinge viaggia sempre con la propria vettura perché non vuole autisti che ascoltino conversazioni delicate. Ma scopre che il Motorola dell’auto è stato taroccato. Si dirà poi che era solo smontato. Resta un alone di mistero: secondo alcune fonti la cimice c’è davvero, secondo altri è una paranoica conseguenza del pessimo clima interno. Ci rimettono il posto Vittorio Nola, segretario generale di Telecom Italia e Piero Gallina, responsabile della Security. Vengono rimpiazzati da Giuliano Tavaroli, proveniente da Pirelli, poi finito nelle inchieste sul progetto Amanda e le intercettazioni a politici e uomini d’affari.

L’incidente fa capire a Bondi che in quel nido di vipere difficilmente può far passare i suoi piani. E che, soprattutto, il modello Ferfin non funziona. Il superisanatore comincia con l’elenco delle attività no core. E incappa subito ne La 7. Ma la tv non è un polimero e il chimico scopre presto quel valore immateriale che rende la pur piccola rete una partecipazione sensibile. Prova a disboscare la jungla amazzonica e la pampa argentina, ma gli accordi sudamericani stipulati prima dalla Stet di Pascale poi da Colaninno si rivelano inestricabili. La sua esperienza telefonica, così, dura pochi mesi e nell’agosto lascia per andare dalla Fondiaria-Sai del vecchio amico Ligresti.
A dicembre, sfiora una nuova grande avventura: il risanamento della Fiat. Lo propone Maranghi a Umberto Agnelli insieme al piano che dovrebbe accorpare un polo delle auto sportive e di lusso separato dalle vetture di massa cedute di fatto a General Motors. Umberto va a palazzo Chigi a spiegare l’operazione a Silvio Berlusconi. Intanto Giovanni Bazoli, invece, si reca a villa Frescot, incontra l’Avvocato sofferente e gli spiega che si tratta di un golpe. Intanto, Antonio Fazio invita Paolo Fresco a resistere. L’operazione Bondi sfuma. E la Sfinge resta in Fondiaria finché non arriva il crac Parmalat.

E adesso? Se gli riesce l’operazione Collecchio, se recupera un rapporto con le banche, se fra un anno la società tornerà in utile e se riuscirà ad aggregare un polo alimentare (quanti se in una sola frase) Bondi non sarà solo un rescue man, ma anche un costruttore di strategie industriali che, in fondo, è l’ambizione di tutta la sua vita. Intanto, però, dovrà pararsi dalla controffensiva delle banche. I maggiori istituti di credito non ci stanno a finire sul banco degli imputati e hanno messo al lavoro i loro uffici legali. C’è il rischio di una denuncia contro Bondi e Tanzi, accomunati per un capriccio del destino. E il rischio è di una azione concertata sotto la tutela dell’Abi. Un muro contro muro del genere non si era mai visto. Un punto, la Sfinge l’ha segnato a New York, il cui tribunale ha dato via libera ad azioni contro Deloitte & Touche e Grant Thornton. Ma in Italia sarà più dura.

La strategia bondiana, del resto, ha come architrave del risanamento proprio la soluzione della partita creditoria. A fine settembre, alla vigilia della quotazione in borsa, l’indebitamento era caduto dai 366,6 milioni di fine giugno a 219,4 milioni grazie all’accordo con Morgan Stanley (155 milioni) e altre entrate straordinarie. Sul piano strettamente industriale, il gruppo sconta ancora una riduzione del fatturato che dovrebbe attestarsi a 3,782 miliardi nel 2005 per ritornare sui 3,8 quest’anno quando dovrebbe realizzarsi anche un ritorno al profitto. Le vendite vanno bene in America e in Sud Africa, ma restano piatte in Italia e sono in discesa sui mercati europei. Dunque, it’s a long way to Collecchio, la strada resta lunga e in salita prima che Parmalat possa diventare quel polo aggregante sognato da Enrico Bondi.

Fonte: Il Mondo 31 marzo 2006

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