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Biagi, un simbolo da salvare

La sinistra italiana non riesce a fare i conti con la figura di Marco Biagi. Ancora di recente in un talk show un esponente di primo piano dell’ Unione, Alfonso Pecoraro Scanio, per sostenere l’ennesima e sterile polemica sull’argomento, ha esclamato che «Biagi era una persona per bene e una legge c o s ì non l’avrebbe mai fatta». E devono pensarla come lui tutti quelli che, a sinistra, per attaccarla la definiscono legge 30 o addirittura legge Maroni. Chapeau dunque a Walter Veltroni che al giurista ucciso dalle Br ha dedicato una strada della capitale e soprattutto ha avuto il coraggio di scrivere, in un articolo uscito ieri sulla Stampa, che quella di Biagi è la via giusta per favorire la crescita dell’occupazione. «La flessibilità ha contribuito a facilitare l’accesso di tanti ragazzi e ragazze al mondo del lavoro ». Più chiaro di così il sindaco di Roma non poteva essere.
Il messaggio è diretto a quanti dentro l’Unione—ma anche nei Ds — hanno fatto dell’ abolizione della Biagi un obiettivo identitario, quasi che la cancellazione di quel provvedimento — e di quel nome indigesto — possa essere nei primi 100 giorni la dimostrazione del peso delle sinistre radicali dentro la coalizione uscita vincitrice dalle urne. Invece vale esattamente il contrario: il nome del professore socialista e cattolico è diventato un simbolo, accettare la sua legge è anche la riprova di un riformismo maturo che mette tra sé e la cultura che ha animato gli assassini di Biagi un solco incolmabile. Il gesto di Veltroni apre, dunque, una prospettiva nuova per le forze del centrosinistra, ricucire il Paese dandosi come bussola la ricerca delle soluzioni più efficaci, arrivando ad utilizzare spezzoni di provvedimenti decisi dal centrodestra.
Il governo Prodi vorrà migliorare la Biagi? Intenderà porsi l’obiettivo di difendere il lavoro debole? Si sforzerà di dotare l’Italia di un più moderno sistema di ammortizzatori sociali? È giusto e auspicabile che lo faccia. Il precariato può essere una condizione temporanea, non è razionale che si trasformi in quella che un riformista coraggioso come Pietro Ichino ha bollato come «la nuova apartheid». Ma le affermazioni di Veltroni fanno notizia perché nel centrosinistra non è ancora uscita allo scoperto un’ impostazione che si proponga di costruire le condizioni dell’uguaglianza e non si limiti ad invocarle per decreto. L’imponibile di manodopera è una gloriosa parola d’ordine del sindacato degli anni 50, dei tempi di Giuseppe Di Vittorio, ma nell’epoca della delocalizzazione le strategie per accrescere le occasioni di lavoro (e per tutelarlo) richiedono sperimentazione e coraggio.
Un diritto del lavoro che garantisce l’inamovibilità degli insider e sposta tutto il rischio a carico degli outsider di sicuro oggi non aiuta e andrebbe ripensato. Per Prodi la disputa sulla Biagi è una piccola cartina di tornasole. Vale la pena ricordare come all’epoca del suo precedente governo fosse stata messa su una commissione incaricata di elaborare un progetto dell’Ulivo per l’ammodernamento del welfare. A presiederla fu chiamato uno dei più stimati collaboratori del Professore, l’economista bolognese Paolo Onofri. Il documento finale di quella commissione conteneva ricette coraggiose e spunti innovativi.
I massimi dirigenti confederali, e non solo quelli della Cgil, lo marchiarono sprezzantemente come «atti osceni in luogo pubblico ». E quel rapporto restò nei cassetti di Palazzo Chigi. Fortunatamente Onofri gode di buona salute e forse sarebbe felice di aggiornare quel documento di nove anni fa.

Fonte: Il Corriere Economia del 13 maggio 2006

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